Sam Mendes, un’autorità del teatro britannico, a un certo punto ha deciso di frequentare non solo le tavole del palcoscenico ma anche i set cinematografici. Gli è andata subito alla grande: proprio vent’anni fa, infatti, ha vinto l’Oscar come miglior regista per la sua opera prima, American Beauty. Di lì in poi è passato dal calligrafismo al perturbante senza mai scegliere davvero da che parte stare. Per un po’ ha giocato a revisionare i generi (noir, guerra, mélo) aspirando al Grande Romanzo Americano e simulando perfino il dramedy indie; poi ha trovato una strada particolare – forse la più adatta al suo temperamento – nel rinvigorimento del franchise di 007.

Regista scaltro, l’accademico Mendes. Bravo? Si può essere bravi in tanti modi – e poi cosa vuol dire “bravo”? Tra l’altro non spetta naturalmente a chi scrive decidere se un regista sia bravo o meno– ma il problema subentra quando la consapevolezza della propria bravura si confonde con l’autocompiacimento della propria abilità. Con 1917, Mendes rivela tutta la ridondante perizia tecnica di un regista che non avrà mai lo stile di un autore. Sulla scorta (ricattatoria) dei ricordi di guerra del nonno, il film segue la corsa contro il tempo di due caporali inglesi. Devono attraversare le file nemiche per consegnare un dispaccio a un altro battaglione – che ha in forza il fratello di uno dei due soldati: il fratello, sì, il fratello – pronto ad attaccare l’esercito tedesco.

Un frammento emblematico che, sulla carta, dovrebbe dare il senso dell’intera Prima Guerra Mondiale e per estensione di tutti i conflitti bellici, ma che appare da subito al servizio del progetto estetico se non estetizzante di Mendes e del glorioso direttore della fotografia Roger Deakins. I due costruiscono un’architettura visiva incardinata sulla ormai banale intuizione dell’unico piano sequenza (peraltro illusorio, e non è questione del pur ingegnoso montaggio di Lee Smith) per mettere lo spettatore nella condizione di seguire il protagonista nell’odissea militare. Più Revenant che La grande illusione. Oltre ad apparire fin troppo “studiata” e senza empatia per restituirne l’orrore (non bastano i cadaveri nel fiume), l’operazione riduce la guerra a un’esperienza video-ludica strutturata per livelli di difficoltà. Il che non è di per sé un male, anzi, ma perlomeno Michael Bay è più onesto.

Nel tronfio trionfo di un virtuosismo utile a scaldare i cuori dei critici americani, Mendes salta dall’iper-realismo en plein air della prima parte al finale in trincea passando attraverso un fiume travolgente e soprattutto l’esplorazione notturna della fiammeggiante città in rovina. Qui l’impressione iniziale è che si occhieggi a uno straniamento di matrice teatrale, sostenuta proprio dall’origine artistica del regista. Poi, in un attimo, ci si sente calati dentro una versione estetizzante e più tracotante di Call of Duty o Battlefield 1 che con retorica magniloquenza maschera l’ipocrisia del manicheismo patriottardo. Alla fine i bravi soldati inglesi si stringono la mano e non piangono perché, insomma, sono uomini duri, ma come faccia un foglio di carta scritto con l’inchiostro di un secolo fa a resistere in acqua resta un mistero. Gli Oscar sono praticamente già in bacheca (almeno regia e fotografia). Niente di nuovo sul fronte occidentale: più che un riferimento, una recensione.