I gatti che affollano la chiatta de L’Atalante di Jean Vigo, difficilmente passano inosservati, potrebbero rientrare nella categoria dei “gatti da granaio” coniata da William Burroughs per definire quei “gatti sfamati sommariamente con latte scremato e avanzi”, costretti a conservare un appetito costante placato solo dalla caccia a qualche ratto distratto. Il gatto da granaio desidera ardentemente, spiega Burroughs nel suo Il gatto in noi (1986), “conquistarsi un protettore umano”, privilegio che lo rende a tutti gli effetti un gatto di casa.

Se nella finzione cinematografica père Jules (Michel Simon) assume il ruolo del protettore dei gatti, raccolti durante i suoi numerosi viaggi, anche nella realtà, la cura e l’affetto che l’attore dedica ai felini, un po’ spaesati, coincidono con le caratteristiche del personaggio richieste dal copione: “JEAN – Allez! Emmène ça, ou je le fous à l’eau. Le père Jules se précipitant sur les chats, en met dans ses poches, dans ses bras, et en prend même un entre les dents. LE PÈRE JULES – A l’eau ! A l’eau ! Il noierait son gosse celui-là. Viens, ma Minoune !” . (Pierre Lherminier, Jean Vigo, Parigi 1985)

Sembra che Simon abbia adottato il gattino rannicchiato all’interno della tromba del fonografo in una scena memorabile dettata dalle circostanze e favorita dall’imprevedibilità del caso, appena il suono del disco si era diffuso nella cabina, i gatti, che spesso interferivano con i movimenti dell’équipe, attratti dalla musica lo avevano circondato, “Vigo non ha voluto mancare una simile inquadratura, e una volta tanto poté lavorare senza che gli animali fossero minimamente turbati. (…) Vigo, in quel momento, dovette sentire cadere ogni resistenza esterna alla sua volontà creatrice: in quel momento tutto sembrava organizzarsi spontaneamente, l’idea prendeva forma da sé per proporsi all’accettazione del creatore”. (Paulo Emilio Sales Gómes, Jean Vigo. Vita e opere del grande regista anarchico, Milano 1979)

Tra l’altro, quando Michel Simon è invitato a raccontare la sua esperienza con Vigo nel documentario di Jacques Rozier (Jean Vigo, 1964), senza entrare troppo nei dettagli sul trattamento riservato a questi attori dalle lunghe code, ci tiene però a precisare che loro avevano solo bisogno di maggiori attenzioni e la vita sul set non era così facile… Sicuramente il gattino attratto dal fonografo, lo stesso che spesso vediamo attaccato con tutte le forze alle spalle di père Jules, è andato ad allargare la vasta cerchia di animali che Simon ha posto sotto la sua ala protettrice.

Nei suoi diari la scrittrice Anaïs Nin riporta un episodio alquanto singolare, l’incontro con Michel Simon avvenuto a Parigi nel 1936, lui cerca qualcuno a cui affittare La Belle Aurore, una chiatta presa tempo prima per viverci con le sue amate scimmie. L’attore racconta che in sua assenza, una femmina non ha sopportato la separazione, ha fatto lo sciopero della fame ed è morta in mancanza del suo ideale compagno, Simon, il quale domanda, senza un filo di ironia, alla sua futura affittuaria: “Crede che una donna mi avrebbe amato così profondamente?”. (Anaïs Nin, Il diario. Volume secondo 1934-1939, Milano 1978)

A questo punto potremmo chiederci quando il cinema superi quella linea labile e confusa che lo separa dalla vita reale, ma non è finita, Simon dà in affitto la chiatta ponendo una sola condizione, su questa dimora galleggiante devono continuare a viverci un vecchio con una gamba sola che indossa un berretto da capitano insieme a René, giovane orfano dall’aria imbronciata che avrebbe sbrigato i lavori pesanti, senza ombra di dubbio Louis Lefebvre, il mozzo de L’Atalante.

Dopo questi aneddoti un po’ folcloristici, piuttosto prevedibili se si parla di gatti, proviamo a chiederci quanto alloggiare una colonia felina sulla chiatta, modificando il soggetto di Jean Guinée che prevedeva un cane, sia stata una scelta formale dettata dall’aspetto sinuoso del gatto, simbolo forse di un erotismo animalesco, letteralmente gettato nella mischia per creare scompiglio, o quanto invece siano i ricordi dell’infanzia di Vigo a riaffiorare.

Premettendo che a Miguel Almereyda bisognerebbe dedicare un approfondimento a parte, per delineare meglio il profilo di un padre, militante anarchico, che ha segnato indelebilmente l’esistenza di Vigo, sia per la perdita improvvisa dovuta alla morte avvenuta in prigione in circostanze poco chiare, ma soprattutto quanto questa assenza abbia orientato le scelte registiche del figlio. Un fantasma dell’inconscio che riaffiora alimentato dal ricordo dei compagni di Almereyda, questi assieme a Vigo proseguono quel percorso di militanza avviato anni prima a fianco di suo padre e sembrano farsi carico della crescita intellettuale di Nonò, così soprannominato dai genitori.

Luce Vigo, la figlia di Jean, riallacciando quel filo diretto, e privilegiato, che la lega ad Almereyda ha ritrovato nei film del padre degli indizi, a cui più volte si è attribuito un valore biografico, ma, in sostanza considerati elementi utili a creare l’atmosfera del film; Luce, meglio di altri, è riuscita, attraverso le sue riflessioni e testimonianze indirette, a mettere in risalto l’opera di un padre sconosciuto (“Il est mort à vingt-neuf ans, j’en avais trois”), ma soprattutto la sorprendente carica evocativa: “L’Atalante: ʻDans un travelling d’une violence inouïe, derrière les grilles de la gare Austerlitz, n’est pas Almereyda que mon père resuscite?ʼ”. (Luce Vigo, Jean Vigo. Une vie engagée dans le cinéma, Cahiers du cinéma 2002)

Nella biografia su Vigo scritta da Sales Gómes con l’aiuto dei collaboratori e degli amici del regista, troviamo Almereyda intento a invitare i suoi compagni nella piccola mansarda in cui vive con Emily Cléro, anch’essa giovane militante, vuole mostrare il suo “ultimo piccolo”, ovviamente nessuno si aspetta di trovare Jean appena nato vista la moltitudine di gatti con cui vive la coppia, randagi scheletrici raccolti in strada da Almereyda, una vera passione i suoi piccoli, con cui spesso, raccontano gli amici, condivide il misero pasto di cui dispone.

Sono i gatti della mansarda parigina, affamati e in cerca del protettore burroughsiano che Luce Vigo riconosce “comme des fantasmes d’enfance dans À propos de Nice – le chat dans la vieille ville qui fixe la caméra avant de s’enfuirˮ; sono gli stessi, questa volta un po’ sfamati da Almereyda/père Jules ne L’Atalante “chats inquiétants, toutes griffes dehors égratignant le visage du marinier, agrippés à la robe de Juliette, chats ronronnant sous les caresses du Père Jules et du gosse, ou regroupés autour d’un disque magique dans une cambuse désertée, éléments dramaturgiques et non simples objets d’ambiance ou de décor d’un filmˮ.

Il gatto, animale elegante, indipendente e sfuggente, nell’opera di Vigo sembra divenire una trasfigurazione della figura paterna che si rispecchia nel carattere e nell’aspetto del felino: “Passeggia dentro il mio cervello come se fosse in casa sua, mite, leggiadro, forte, un bel gatto”. (Charles Baudelaire, Il Gatto in I fiori del male, Milano 1968)

Almereyda è un uomo ben vestito e di bell’aspetto, aggressivo quando scrive su “La Guerre Sociale” o “Le Bonnet Rouge”, diffidente quanto basta visti i numerosi nemici che le idee anarchiche e antimilitariste gli procurano, e ovviamente affettuoso con il piccolo Jean che cresciuto cercherà di riabilitare la sua memoria infangata da accuse false.

Ne L’Atalante gli spazi angusti delle cabine sulla chiatta ricreano l’ambiente intimo della mansarda in cui Vigo è nato e vi ha trascorso i primi mesi di vita; il gatto, riportando ancora i versi di Baudelaire “è il genio familiare di questo luogo; giudica, presiede, ispira tutto dentro il proprio regno”, è solo in questo microcosmo, distante dalla città e dalla società, che gli ideali e le utopie di Almereyda trovano un senso, rischiando di venir meno ogni volta che si scende sulla banchina e si entra in contatto con il mondo esterno, caotico e nemico.