In occasione delle celebrazioni felliniane, pubblicheremo alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema. L'idea di raccoglierli in una pubblicazione è nata qualche anno fa, quando per la prima volta si mise mano ai 770 ritagli stampa sull'autore, presenti nel Fondo Giovanni Calendoli; da questa imponente raccolta sono emersi una cinquantina di pezzi di grandi firme della cultura italiana e dei quali quasi la metà non segnalati nella monumentale BiblioFellini, 2002-2004. Questo articolo si avvale in parte di questo tesoro di cui vi daremo qualche altro assaggio.

Amarcord: alla ricerca del tempo perduto

Chi non ha mai visto Amarcord (1973) quasi certamente conosce la scena del transatlantico Rex o dello zio Teo (Ingrassia) che da sopra un albero urla "Voglio una donna!". Magari non ricorda chi è la Gradisca o la tabaccaia, ma questi personaggi si sono infilati nel nostro immaginario se non per mezzo di una sala cinematografica, di certo facendo capolino più e più volte dalla televisione e dal web.

Se questo film non fosse di Fellini, inizierebbe la ricerca di testimonianze d'archivio, nella speranza di scoprirne l'originaria intuizione e i segreti di fabbricazione. Ma con l'istrionico Federico questa strada non conduce molto lontano perché affetto dalla 'sindrome dell'assassino' (definizione che lui stesso ha usato). Ogni volta che un film era pronto ad andare in sala, il Maestro distruggeva ogni possibile traccia che potesse fornire indizi a chi avesse voluto tentare di dare un'ordine alla storia creativa di una sua opera. Il suo archivio è fatto di ciò che è sopravvissuto alla sua volontà di cancellare ogni prova, spesso per pura casualità o per la protervia di qualche collaboratore che, di nascosto, raccoglieva ciò che il regista disseminava. Ma la "distruzione" non è fine a se stessa.

Come la sua immaginazione inventa il film, così Fellini vuole essere padrone indiscusso anche di ciò che avviene prima e durante la sua realizzazione. L'archivio diventa un'invenzione e come ha dichiarato Andrea Camilleri, non meno reale della creazione artistica stessa; che sia un libro o un film, poco importa. Nonostante i due partano da prospettive che sembrano opposte - l'approccio storico dello scrittore, quello intimistico e onirico di Fellini - entrambi avevano l'urgenza di inventare. Camilleri ha creato addirittura una nuova lingua e se per un suo romanzo aveva bisogno di un documento d'epoca perduto, si prendeva la libertà di produrre un falso; Fellini, si sa, attingeva a piene mani dall'archivio del suo inconscio.

La conseguenza più diretta di questa operazione in relazione ad Amarcord è che per Fellini anche la memoria è un artefatto. Durante la ben conosciuta intervista di Enzo Siciliano, Fellini, alla domanda dello scrittore se il film fosse autobiografico, rispose: "Non è la memoria che domina i miei film. Dire che i miei film sono autobiografici è una disinvolta fregnaccia. Io la mia vita me la sono inventata. L'ho inventata apposta per lo schermo. Ho vissuto per scoprire e creare un regista: niente altro. E di niente altro ho memoria, pur passando per uno che vive la sua vita espressiva sui grandi magazzini della memoria. Nel senso dell'aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c'è nulla. C'è invece la testimonianza di una certa stagione che ho vissuto. In tal senso, allora sì, che i miei film sono autobiografici".

Quest'affermazione la si può applicare in particolare ai film che ha realizzato agli inizi degli anni Settanta; affrontano tutti un viaggio a ritroso nel tempo. I luoghi dell'anima che esplora sono il Circo (I clowns, 1970), la Capitale (Roma, 1972) e infine Rimini (Amarcord, 1973). Mentre s'intuiscono le potenzialità simboliche che il circo rappresenta, meno scontato è prescindere dalla fisicità dei luoghi come Rimini e Roma e quindi dall'elemento biografico e geografico, soprattutto per Rimini, sua città natale. Ma per Fellini questi luoghi hanno il potere di materializzarsi in dimensioni spazio-temporali diverse. La sua Rimini diventa la tipica città italiana di provincia in una specifica epoca storica; quella del regime. Come se si vedessero le cose attraverso una lente d'ingrandimento, l'aria che respira il piccolo borgo diventa metafora, una sineddoche dell'atmosfera in cui era immersa l'Italia fascista negli anni Trenta. Non stupisce che il film non sia stato girato nella Rimini reale, ma in un borgo completamente ricostruito in studio. Molti anni prima neppure I vitelloni (1953) furono girati a Rimini ma a Ostia che per Fellini rappresentò Rimini meglio di quello che la sua stessa cittadina di origine potesse fare. La realtà, ci vuole dire Fellini, non è garanzia di verità.

Nonostante la sua indole apolitica, Fellini ha fatto film che hanno saputo leggere profondamente le trasformazioni del paese. Il suo sentire non pone i suoi film fuori dalla storia. In Amarcord la sua memoria si fonde con quella collettiva: "Mi sembra che i personaggi di Amarcord, i personaggi di questo piccolo borgo, proprio perché sono così, limitati a quel borgo, e quel borgo è un borgo che io ho conosciuto molto bene, e quei personaggi, inventati o conosciuti, in ogni caso li ho conosciuti o inventati molto bene, diventano improvvisamente non più tuoi, ma anche degli altri".

La coralità di personaggi messi in scena, gli permette di frammentare la narrazione in una molteplicità di episodi e di compiere il miracolo di fare che un contesto così particolare diventi universale. La necessità di ricostruire tutto in studio, persino il mare, diventa condizione imprescindibile perché la rappresentazione di questo sentire sia ricreato il più fedelmente possibile: "In Amarcord ho ricostruito il mare. E nulla è più vero di quel mare sullo schermo. È il mare che io volevo e che il mare vero non mi avrebbe mai dato. Il cinema è un'illusione: un'immagine che deve risultare per quel che è, che non può non essere programmata, calibrata, prevista e poi scatenata." (sempre dall'intervista con Siciliano)

Da L'uomo Invaso a Amarcord

Conviene cercare l'origine di questo film e le trasformazioni che ha subito durante la fase di gestazione fino a 'delitto' compiuto, nelle dichiarazioni rilasciate dallo stesso Fellini alla stampa. Persino nell'archivio di Franco Cristaldi, il produttore del film, l'unica documentazione presente a che fare con i costi di produzione e gli incassi, ma niente soggetto, sceneggiatura o corrispondenza. L'unica traccia significativa in questo senso è che il titolo è cambiato; quello provvisorio (di lavorazione) era Storie di Romagna.

In "Oggi" del 21 giugno 1973 (la lavorazione del film è iniziata a gennaio) Fellini racconta di aver avuto una folgorazione dal barbiere e precisamente l'8 marzo del 1970, alle ore 15:00 circa. Si scopre che Fellini tiene un taccuino dove registra ciò che capita al suo corpo; quel giorno annota la prima idea di quello che diventerà Amarcord. Ma nel raccontare questo aneddoto non dice qual è la natura della sua primissima intuizione. Descrive invece ciò che nel frattempo (sono passati più di due anni nei quali ha fatto due film, I clowns e Roma) quell'intuizione è diventata: "Non ci sono personaggi principali. Si tratta di un centinaio di apparizioni di ombre, che si esprimono soltanto con gesti. I dialoghi sono fuori campo, sussurrati da persone che non si vedono. E ogni figura che appare si sdoppia immediatamente con illuminazioni sull'infanzia e sulla vecchiaia". Ma il meglio lo inventa raccontando quale sarà il finale: "Via, via che si avvicina la fine del film, le immagini non sussistono quasi più, rimane solo il sonoro, dovrebbe farsi una specie di luce, di crepuscolo in sala, in modo che il pubblico possa essere coinvolto, reso partecipe dell'avventura fantastica che ha visto...". Cosa sappiamo del film? Quasi nulla, se non che sarà un film corale, ambientato in una città di provincia: "La storia complessiva dovrebbe risultare molto chiara, anche se non si può dire che ci sia una vera storia. È la vita di un paese prima della guerra, ma potrebbe essere anche un paese d'oggi o del futuro, o del lontanissimo passato".

Un anno e mezzo prima di questa intervista, il 3 dicembre del 1972, in "Il Messaggero" appare un articolo di Costantini dal titolo L'arca di Fellini in cui il regista racconta di un progetto dal titolo L'uomo invaso che - afferma - sarà un'opera "fantascientifca, fantapolitica, fantapsicologica sulle invasioni. Un uomo cerca disperatamente un rifugio dalle invasioni e lo trova nel passato". Per dare il senso del film Fellini racconta un aneddoto che gli è capitato andando a Cinecittà: si è trovato imbottigliato nel traffico, in "una calca incessante di macchine, di abitacoli meccanici, di cubicoli semoventi, dentro i quali non riusciva a scorgere una faccia umana, una faccia che sorridesse, che apparisse felice o in vena di fantasticare, bensì una serie terrificante di facce tetre, depresse e deprimenti". Nello stesso tempo si è ritrovato sommerso da un'ondata di gas di scarico, da una marea di vapori pestilenziali. Se ne è sentito soffocare. Allora è sceso e si è messo a camminare sul bordo della strada. Una volta in mezzo ai campi si è sentito finalmente meglio, libero di respirare. Non ha importanza sapere se l'episodio sia realmente accaduto. È certo una metafora di ciò che Fellini ha vissuto e rivive ogni volta che fa un film: la vertigine della creazione. È evidente che questo racconto evoca la sequenza del sogno di Guido mentre si trova in auto, in 8 1/2 (1963). Fellini stesso dichiara a Enzo Siciliano: "Non so distinguere un film dall'altro, dico i miei film. Per me, ho sempre girato lo stesso film. Si tratta di immagini e solo di immagini che ho girato usando i medesimi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi".

Il 10 febbraio 1974, su "Il Corriere della Sera", Natalia Ginzburg scrive una recensione memorabile sul film: "Qui, allo spettatore non è richiesto nulla se non di guardare. Dopo, sarà il tempo di pensare. Ma Fellini parla un linguaggio di immagini e le immagini devono essere prima guardate e capite dopo. Non si sentono, in Amarcord, né disegni, né scopi, né idee prefabbricate. Quello che è il nucleo essenziale del film, lo scopriamo più tardi, ricordando il film. Per ora, finché guardiamo, tutto sembra esserci dato in regalo. Non abbiamo la sensazione di vedere un film, ma di guardare esistere la natura. Quando qui vediamo la neve, o la nebbia, o la campagna, non pensiamo all’abilità di Fellini, o alla genialità di Fellini, ma diciamo a noi stessi che avevamo sempre sospettato che così fossero la neve o la nebbia e finalmente sappiamo, sulla neve o sulla nebbia, tutta la verità. Una simile sensazione è di grande libertà e pace, e anche di nervosa irrequietezza perché il sapere la verità sulle cose che abbiamo sempre portato con noi, sconvolge i nostri paesaggi interiori e fa tremare e vacillare in noi vecchie terre sulla quali usavamo vivere di un cauto e rassegnato grigiore.

L’Evocazione degli anni Trenta, in Amarcord, a me ha dato dei brividi, perché mai mi era successo di vedere evocati gli anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e tanto orrore. Verità e orrore non sono enunciati né con parole né con avvenimenti, ma sempre e solo con un linguaggio di immagini. La nostra generazione, cioè la generazione di quelli che sono cresciuti nel fascismo, è una generazione di malinconici. Il fascismo era urlante e trionfante e noi malinconici. Perciò quando ripensiamo a quegli anni, incontriamo la nostra malinconia.

In Amarcord, la malinconia è assente. Così gli anni Trenta appaiono quali erano. Il fascismo di allora appare qual era, sordido, miserabile, atroce. Era visibile e invisibile. Nella sua forma visibile, era grottesco. Noi ne conoscevamo bene allora soltanto gli aspetti grotteschi, quelli tragici li abbiamo capiti più tardi. Nella sua forma invisibile; veniva bevuto e respirato con l'acqua e l'aria anche da chi lo detestava. Non era facile difendersi dai suoi contagi. Amarcord ci fa vedere un mondo che non sa difendersi dai suoi contagi. Ci fa vedere una piccola comunità di provincia, un mondo abbandonato a se stesso, isolato, sprovveduto, povero di pensiero e di parole. Ma tutta l'Italia era allora simile a una provincia".

Nella foto: R. Barneschi, Finisce tutto in gatto, in 'Oggi Illustrato', 21 giugno 1973, Fondo Calendoli