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“A Private War” e la ferita delle immagini
Ciò che i realizzatori fanno, aiutati da una superba Rosamund Pike, è in gran parte agli antipodi rispetto alle convenzioni di questo genere di biopic; più che farne un feticcio inerte, si sforzano di riportare l’eroismo entro limiti di normalità e vicinanza che lo conservino fertile. Marie non è la Giovanna d’Arco dreyeriana, gli occhi rapiti da una verità tanto più grande della nostra da evadere i bordi dell’inquadratura. Addirittura gliene manca uno, portatole via dai miliziani in Sri Lanka, tanto che l’amico e fotografo Paul Conroy (Jamie Dornan) scherza sulla sua incapacità da guercia di vedere il quadro generale delle cose. “I ain’t no fucking pirate!” ride lei della benda nera al suo occhio sinistro, ma è più facile vedere come corsaro (burbero e terreno) che come santo o martire chi rischia la pelle spacciando ai controlli di frontiera degli uomini di Saddam la tessera della palestra per attestato di appartenenza a un’organizzazione umanitaria.