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Lanciati verso il disastro. “Don’t Look Up” e l’Apocalisse brillante

Per quanto, a fini di slancio retorico, alcuni aspetti vengano tagliati con l’accetta, dando assoluta irrilevanza alla comunità scientifica e centralismo senza appello alla politica americana, Don’t Look Up riesce comunque a portare sul tavolo tanti grandi temi della contemporaneità: dalle strategie di diversione di massa alla genesi delle fake news, dai pericoli del predominio dell’infotainment alla polarizzazione degli opinioni in schieramenti dogmatici e semplificatori. Per un film annunciato a fine 2019, dunque concepito ben prima dello scenario pandemico, si tratta quasi di una dimostrazione a posteriori della potenza della propria visione prospettica.

“Vice”, l’esca ce la siamo divorata tutti

Vice fa così: ti prende a schiaffi con il sorriso, lasciandoti un fastidio alle gote impossibile da ignorare. Il film non inizia e non finisce davvero, perché in quella realtà ci siamo ancora dentro. Ecco allora che tutto diventa un patchwork pop, patinato e roboante, mentre fuori c’è la morte. McKay sintetizza la formula per il biopic perfetto, per il suo biopic, tornando addirittura a Lucrezio: mescolando l’utile al dolce, sia per lo spettatore abituato a Michael Moore che riconosce Condoleezza Rice o Colin Powell, sia per chi a Fahrenheit preferisce il Fernet. Non ci viene lasciato scampo, giustamente. Vice apre l’ennesimo squarcio nella politica americana, tirandoci attraverso la tela per inorridire di fronte al ghigno che si nasconde in piena vista. Perché a Christian Bale basta solo quello per consegnarci il suo Dick Cheney: un sorriso che si taglia come una crepa nel granito. 

Il cinema spurio di “Vice”

McKay compone un collage eterogeneo, sfrutta un montaggio spiazzante e jazzistico che lavora su analogie e parodie, accosta i pixel alla grana della pellicola, procede per anacoluti narrativi e false partenze (la voice over svelata a singhiozzo, i titoli di coda a metà film, le didascalie celebrative in funzione anti-spettacolare). Guarda, tra i tanti, a Michael Moore, Errol Morris e House of Cards: del primo conserva la foga anti-establishment, del secondo la lucidità della riflessione su immagine e politica, del terzo i monologhi in macchina e il gusto per un intreccio sotterraneo complesso e appetitoso. Piega a suo favore il trasformismo fisico e vocale di Christian Bale, Steve Carell e Amy Adams, e condisce il tutto di un’umorismo demenziale eppure sofisticatissimo, basato sullo scollamento tra registri linguistici e visivi. Il risultato è un cinema spurio, ibrido, che procede con andatura sincopata in un patchwork