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Nascita del poliziesco italiano di impegno civile. “La Confessione” di Damiano Damiani

Il cinema di Damiani – parliamo di quello che va dalla Confessione ad altre pietre miliari come Perché si uccide un magistrato, Io ho paura e L’avvertimento, fino agli epigoni – è un cinema basato su un compromesso, su un’armoniosa intersezione fra cinema “alto” e cinema “popolare”, fra “autore” e “genere”, definizioni ormai ridotte a etichette che lasciano il tempo che trovano. Perché Damiani, con un pugno di film, è stato in grado di unire un tipo di cinema poliziesco e spettacolare con acute indagini sui fenomeni più scottanti dell’Italia di allora, e che trovano un’inquietante corrispondenza anche in quella di oggi

“La notte brava del soldato Jonathan” fra le donne di Don Siegel

Clint Eastwood, nel 1971, sui titoli di testa di La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel intonava a bassa voce The Dove di Judy Collins. A dirla tutta, la canzone poi tornava pari pari cento minuti dopo sugli altri titoli, quelli di coda, a sancire eccome quel presagio di morte, con la sorpresa di spostare l’attenzione appena una riga più sotto, sulle “belle fanciulle”, e sul consiglio che un uomo – il protagonista, la loro vittima – si preoccupava di dar loro attraverso le parole di una donna. Il titolo originale del film non per niente è The Beguiled, l’ingannato, così come del romanzo di Thomas Cullinan da cui è tratto. 

Il west straniante di Robert Altman. “I compari” e la revisione del mito

Il western è sempre stato lo specchio degli Stati Uniti, il genere epico per eccellenza, celebrativo della storia nazionale e spesso investito dell’onere di rispecchiarne i valori. Era già da diversi anni, quando usciva nelle sale I compari, che la cultura e il cinema statunitensi venivano revisionati sotto uno sguardo critico e disilluso. Complice anche la guerra in Vietnam, già bersaglio della satira altmaniana, si viene a creare un clima culturale di ripensamento sul ruolo della nazione nel mondo. Il western, di conseguenza, in quegli anni viene posto sul tavolo operatorio e dissezionato, smembrato e ricomposto tanto da esordienti quanto da veterani, talvolta con nostalgia e altre con spregio.

Il “Soffio al cuore” dell’ambiguo Edipo di Louis Malle

È straniante leggere oggi come si espresse cinquant’anni fa la critica a proposito di Soffio al cuore di Louis Malle. Il film fu presentato in concorso a Cannes nel 1971 e il regista fu nominato all’Oscar l’anno dopo per la migliore sceneggiatura originale, ma nel complesso l’incesto fra madre e figlio che lo risolve non destò eccessivo scalpore. La stampa europea e quella statunitense, anzi, accolsero con atteggiamento per lo più indulgente la violazione di quel tabù, ricevendola come Malle la diresse: un rito di passaggio giocoso e indolore. Ma un incesto può davvero essere rappresentato e preso così? Molto del cinema di Malle sembra risiedere proprio in queste cesure occultate, di cui forse Soffio al cuore è il vessillo.

“L’ultimo spettacolo” e il distacco malinconico da Hollywood

Due date, 1951 e 1971. Una, l’anno di ambientazione di L’ultimo spettacolo, l’altra, l’anno di uscita nelle sale. Nel mezzo, uno dei più grandi cambiamenti nella storia dell’industria cinematografica americana, la fine della Hollywood classica e l’inizio della New Hollywood. Una crisi e poi una reazione. Una rivoluzione. Certo, come ricordava Franco La Polla in Stili americani, si diceva che la New Hollywood “durò lo spazio di un mattino”, anche perché ci volle poco perché nuovi assetti produttivi si consolidassero, ma senza dubbio fu un periodo prolifico e rivoluzionario, pieno di grandi, seppur piccoli, film; e L’ultimo spettacolo, secondo lungo diretto da Peter Bogdanovich, non può che essere annoverato tra questi.

“Il braccio violento della legge” e l’orrore dentro di noi

Friedkin parte da un fatto realmente accaduto e inizia a raccontarlo attraverso una narrazione realistica, fatta di routine lavorative, tensioni fra colleghi, lunghi appostamenti che sembrano condurre a nulla. La New York di questa quotidianità è una protagonista livida e violenta, ripresa soprattutto nella sua vita di strada, dove anonime vetrine fanno da collegamento fra bar frequentati da sbandati e alberghi per malviventi di buon rango. Un teatro urbano in cui si muovono i due poliziotti, assuefatti ai loro comportamenti aggressivi, come se la violenza fosse l’unico modo di sopravvivere alla criminalità in cui sono immersi. Friedkin incrocia vizi e virtù in uno sfacciato chiasmo di etichette sociali, per mostraci non solo la loro inconsistenza ma anche la loro pericolosità.

“Cane di paglia” o dell’ambiguità nel cinema

Cane di paglia è un ritratto umano aggressivo e spietato, che poteva essere realizzato solamente da un autore che utilizza l’ambiguità come materia prima. La stessa foga irrefrenabile che ha ridisegnato il western con tinte accese e quanto mai dissacranti; la mano che ha calcato le aspre pieghe del cinema bellico, insinuandosi tra le fila reiette dell’esercito tedesco rinvenendovi un’inedita umanità; o ancora la capacità di delineare degli eroi action fuorilegge tanto rudi quanto intimamente fedeli alla propria etica. Per Sam Peckinpah verità e giustizia sono principi delicati che vanno scandagliati attraverso un cinema potente, tanto cristallino nella sua giocosa patina quanto imperscrutabile nelle implicazioni tematiche.

“Harold e Maude” cinquant’anni dopo

Il secondo lungometraggio diretto da Hal Hashby, il più hippie tra i registi della New Hollywood, è un riconoscibilissimo figlio dello spirito ribellistico della controcultura dell’epoca, che viene però rappresentata con grazia, leggerezza e umorismo, creando una parabola che parte dal malessere adolescenziale del protagonista (rappresentato comunque in chiave satirica e con gusto per il grottesco) e che porta poi all’apertura verso la vita, per questo peculiare coming of age. Il film ribalta la rappresentazione di Lolita per mostrare una relazione anti stereotipica per eccellenza, dove i ruoli canonici sono scambiati, come a sottolineare che nulla nella vita segue uno statuto e che alla giovinezza ci si arriva come a uno stato interiore.

“Morte a Venezia” cinquant’anni dopo

Esattamente come l’Adagietto della Quinta di Mahler che lo accompagna, uno schiudersi lentissimo, una luce fioca che dal nero pian piano illumina tutto, così l’assolvenza che apre Morte a Venezia sfuma dal nero dello schermo verso un’alba veneziana che sembra uscita dalle mani di Turner, con un impasto di colori caldi che si disfano uno nell’altro. Percepiamo subito un sorprendente senso di inquietudine sotterranea, insinuante, come se la bellezza di quelle immagini mascherasse un’insidia, un dramma nascosto che ancora non ci è chiaro. Quando la macchina da presa si sposta su Gustav von Aschenbach, seduto sul battello che sta entrando a Venezia, capiamo dal suo sguardo che quell’inquietudine, a cui la musica di Mahler ci stava preparando, è tutta interna al protagonista.

L’ispettore Callaghan cinquant’anni dopo

In Callaghan si condensa un tipo di violenza che oscilla tra realismo, che Siegel aveva già messo in scena nel film Contratto per uccidere, e mitizzazione. Una ferocia che viene esternata anche in altri film dello stesso anno: da Cane di paglia di Sam Peckinpah, allievo di Siegel, fino ad Arancia meccanica di Stanley Kubrick. C’era chi lo accusava il film di apologia del potere della polizia e quindi vedeva in Eastwood l’incarnazione del “reazionario”; ma l’America in quel momento storico viveva le ripercussioni della guerra in Vietnam e delle rivolte studentesche. Così furono proprio lo sconforto e il clima d’incertezza americano a dare vita al famigerato antieroe nichilista.

Una blasfemia storica. Su “I diavoli” di Ken Russell

Presentato a Venezia nel 1971, I Diavoli di Ken Russell rischiò di far saltare il cattolicissimo Gian Luigi Rondi al primo anno di Commissario della Biennale. Il film, che ricostruisce le vicende che portarono al rogo del prete cattolico Urbain Grandier e alla demolizione della città di Loudun, uno degli ultimi tolleranti bastioni di convivenza tra cattolici e protestanti nella Francia della Controriforma, venne subito accusato di blasfemia per le scene di sesso esplicito ed orgiastico. Il tema del rapporto con la censura e della rappresentazione di una sessualità repressa ha sempre messo in ombra la vera blasfemia del film di Russell: la sua scrittura della storia.