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“Nope” e l’ossessione della fotogenia – Speciale parte II

Nope, l’ultima magnificente fatica di Jordan Peele, è certamente uno dei migliori film dell’anno, nonché un perfetto punto di partenza per chi non ha ancora avuto il piacere di entrare in contatto con la filmografia dell’autore statunitense. Di converso, gli apprezzatori dei precedenti lavori di Peele ritroveranno il suo stile riconoscibilissimo, tanto nelle idee registiche che nel registro della scrittura, ma un ritmo finora inedito. Rispetto all’incalzante incedere di Scappa e all’altalenante martellamento di Noi, Nope risulta meno denso e più disteso e la scrittura si concentra sul tema portante dell’ossessione per la fotogenia, dell’irrazionale spettacolarizzazione della realtà.

“Tommy”, poesia dissacrante dall’estetica ultra pop

Ken Russell era indubbiamente la persona perfetta per dirigere Tommy, capace di imprimere nel concept album di Pete Townshend la sua poetica dissacrante e un’estetica ruvida quanto onirica e ultra pop. Già regista di diverse originalissime biografie su compositori classici, i motivi che lo spinsero ad accettare il progetto furono la vicinanza della trama ad una sua sceneggiatura irrealizzata, The Angels, sul tema delle religioni fraudolente, e la possibilità di creare un «visual fist». Ha avuto ragione su entrambi i fronti.

“Tenebre” di cinema allo stato puro

Tolto il piacere puramente cinefilo del cogliere i riferimenti nascosti, Tenebre rimane un’opera intrisa della forte riconoscibilità autoriale di Argento. Tornano scelte registiche che hanno fatto scuola, come la soggettiva dell’assassino e l’ossessiva valorizzazione del dettaglio, il depistaggio dello spettatore ottenuto manipolando la visibilità del materiale narrativo, la rappresentazione unica di una Roma fantasmatica. Le opere di Argento sono cinema allo stato più puro perché impossibili da esprimere con altri mezzi comunicativi, e ogni occasione di visione in sala va quindi colta al balzo.

“Nella morsa” della passionalità schiacciata

Sebbene il titolo – Caught in originale – possa lasciare presagire una buona dose di suspense, l’intreccio effettivo ruota attorno a un triangolo amoroso fra una giovane sposa ingenua, un ricco imprenditore possessivo e un pediatra di buon cuore. Adattata dal romanzo Wild Calendar, è una storia che sarebbe potuta scadere in una successione di stucchevoli soliloqui romantici, colmi di un’emotività che non trapassa i bordi dello schermo. La passionalità di Nella morsa è invece schiacciata, annichilita dal gelido cinismo di personaggi succubi delle proprie manie o del ruolo impostogli.

Tre film di Kinuyo Tanaka

L’ultimo film di Tanaka è il suo lavoro più maturo: Love Under the Crucifix, benché coerente con la trama, sembra voler rimandare al più famoso Gli amanti crocifissi di Mizoguchi. Jidaigeki (film in costume) ambientato nell’era Sengoku, racconta la storia d’amore fra Gin, figlia di un maestro cerimoniere del tè, e il daimyo cristiano Ukon nel periodo in cui la legge giapponese ha cominciato a perseguitare i cristiani. Tratta dall’omonimo romanzo di Toko Kon, quest’opera mostra le dinamiche politiche ed economiche del XVI secolo da un punto di vista particolare, quello di Gin, abbastanza vicina ai centri del potere da averne coscienza ma troppo marginale per potervi influire.

Le donne di Kinuyo Tanaka

La prima metà della rassegna bolognese dedicata alla riscoperta dell’autrice nipponica Kinuyo Tanaka, ha presentato il restauro di tre sue opere. Conosciuta prevalentemente, in occidente, per la sua fruttuosa e duratura collaborazione con Mizoguchi, questo mese in cineteca viene esplorata la sua filmografia da regista. Nonostante Tanaka fosse una celeberrima diva, in patria, sin dagli anni Trenta, il suo passaggio alla regia suscitò diverse ostilità (tra cui la più feroce, curiosamente, ad opera dello stesso Mizoguchi), mentre altri importanti autori dell’epoca (Ozu, Naruse, Kinoshita) la sostennero ed elogiarono i suoi lavori.

“Occhiali neri” e le tenebre rétro di Dario Argento

Questo Occhiali neri farà storcere qualche naso, perlopiù in quanto espressione di un cinema di genere relegato al passato o a gruppi di appassionati, ma era dai tempi di Nonhosonno che Argento non dimostrava tanta sicurezza. Chi cerca un clue puzzle rigoroso, o complessi intrecci basati sulla psicologia deviante, farà meglio a cercare altrove. Già dall’esordio con L’uccello dalle piume di cristallo, oltre mezzo secolo orsono, i personaggi di Argento subiscono il processo creativo più che avvantaggiarsene, complici sceneggiature non prive di sbavature e un generale scarso interesse nella direzione degli attori.

La matrice autoreferenziale – “Matrix Resurrections” perché NO

Il problema narrativo che si pone inevitabilmente quando si riprende una saga dopo lustri, specie una così importante, è che l’autrice si trova costretta a riciclare i personaggi noti, ad uso dei fan di lunga data, quanto a riassumere i precedenti capitoli ai neofiti, o a chi comprensibilmente non ne ricorda i dettagli. In questo compito Wachowski se la cava bene, specie all’inizio, e non risulta né prolissa né ridondante, salvo poi riassumere la vita di ogni singolo personaggio secondario che viene inquadrato anche solo una volta nei primi tre film. 

Il limbo in tempo di guerra. I trent’anni di “Mediterraneo”

Per celebrare il trentesimo anniversario di Mediterraneo, il Lucca Film Festival ha organizzato una proiezione d’eccezione, introdotta da tre dei protagonisti: Claudio Bigagli, Claudio Bisio e Vasco Mirandola. Il film di Salvatores supera illeso i tre decenni perché, al pari di ogni grande opera, riflette su dinamiche perennemente attuali dell’esperienza umana. Attraverso la storia dell’occupazione di un’isola greca da parte di una sgangherata compagnia di militari italiani durante la Seconda guerra mondiale, Salvatores imposta una riflessione lucida e al contempo romantica sulla necessità dell’estraniarsi.

“Amma ariyan” e “Elippathayam” al Cinema Ritrovato 2021

La retrospettiva del Cinema Ritrovato sul parallel cinema si conclude con Amma ariyan (Report to mother) e Elippathayam (Rat-trap), due film complementari che interrogano i temi della volontà umana e della partecipazione. Amma ariyan è soprattutto un film di mobilitazione, in cui spicca peraltro un brillantissimo monologo sulle responsabilità degli intellettuali apolitici, a cui fa da contraltare Elippathayam, un’opera sui rischi connessi al disimpegno.

“L’ultima tappa” al Cinema Ritrovato 2021

Il campo di concentramento di Auschwitz non era più in uso da appena tre anni quando la regista Wanda Jakubowska decise di tornare nel luogo in cui era stata imprigionata per girare L’ultima tappa, che sarebbe poi diventato il suo film più celebre nonché uno dei primi sul tema dell’olocausto. Oltre alla regista anche diversi degli interpreti e la sceneggiatrice Gerda Schneider vi erano stati rinchiusi, e per ricercare ulteriori elementi di veridicità furono usate come costumi delle vere divise dei prigionieri. Le azioni dei personaggi sono orientate in due direzioni: la sopravvivenza quotidiana e la ricerca di una via di fuga. Alla regista, infatti, interessa soprattutto mostrare la tenacia delle donne internate, che cercano di organizzarsi internamente al campo ma anche di tenere d’occhio lo stato della guerra sul fronte orientale, poiché la loro più concreta possibilità di salvezza è l’avanzamento dell’esercito sovietico.

“Bhumika” e “Kummatty” al Cinema Ritrovato 2021

Gli anni Settanta furono un periodo difficile per l’india: iniziati con la guerra contro il Pakistan, attraversati da forti repressioni governative che portarono alla sconfitta elettorale di Indira Gandhi, al potere da oltre dieci anni, e con essa un ulteriore periodo di incerta transizione. A modo loro sia Bhumika (The Role) che Kummatty (The Boogeyman) sono figli di quei tempi ansiogeni e riflessioni sul valore della libertà. Bhumika è basato sull’autobiografia dell’attrice Hansa Wadkar, in attività per oltre trent’anni e conosciuta prevalentemente per le sue interpretazioni in lingua marathi.

“Giochi di notte” e il coraggio di Mai Zetterling

Il più lusinghiero riconoscimento conferito a Nattlek (Giochi di notte), opera seconda di Mai Zetterling, fu probabilmente l’invettiva di Shirley Temple in occasione della sua proiezione al San Francisco International Film Festival, in cui definì il film “pornografico” e indegno di essere mostrato ad un festival. Altrettanto soddisfacente per l’autrice deve essere stato quando, in occasione del Festival di Venezia, il suo film venne mostrato privatamente ai giurati poiché considerato troppo crudo per l’esposizione al pubblico. Quando si scrive e dirige un’opera così dissacrante ed esplicita, reazioni tanto scomposte e allarmistiche valgono ben più di ogni elogio da parte della critica specializzata.

Un cinema costruito sui corpi. “Gli amori di Carmen” di Raoul Walsh

Quello di Walsh è un film costruito sui corpi, e il più importante è sicuramente quello di Carmen, proporzionato e scattante, maliziosamente esposto in favore della cinepresa. Il punto più dolente dell’opera risiede proprio nell’eccessivo indugio di Walsh sul corpo della del Rio, che in certi momenti spezza il ritmo della narrazione per selezionare e sottolineare i dettagli più allusivi del suo fisico. Per quanto a lungo andare le insistenti attenzioni della cinepresa-voyeur risultino stucchevoli, va riconosciuto che contribuiscono a generare un’efficace estetica erotica della sospensione, una logorante promessa di piacere che non si concretizza, vero fulcro del potere persuasivo di Carmen. 

“Khayal Gatha” e “Ghatashraddha” al Cinema Ritrovato 2021

Questo dittico di film apre una parentesi di riflessione su temi quali il rapporto del mistico nel quotidiano e l’impatto della religiosità nella vita sociale, partendo da un luogo, l’India, estremamente frastagliato ed eterogeneo, che per lontananza tendiamo purtroppo a percepire come monolitico. Khayal Gatha è un film nebuloso, in cui lo studio del Khayal, una forma musicale tradizionale indiana, da parte di un giovane si interseca con la rappresentazione di storie e miti riguardanti l’evoluzione di questa tecnica nei secoli. Decisamente meno ostico e più concreto il secondo film, Ghatashraddha (Il rituale), di Girish Kasaravalli. Il tema dell’influenza della religione nella costruzione del tessuto sociale è al centro della scena. 

“Bhuvan Shome” e “Uski Roti” al Cinema Ritrovato 2021

Abbandonare strade battute comporta sempre un certo rischio, ma non sono mancati autori volenterosi di accollarsi il peso della sfida. Un caso meno studiato in occidente è quello del Parallel Cinema indiano, dichiarazione d’intenti prima ancora che movimento artistico, di cui sia Bhuvan Shome che Uski Roti fanno parte. L’idea di partenza è semplice (sulla carta): trovare un nuovo linguaggio espressivo per raccontare nuove storie, per una nuova nazione. In particolare, quello compiuto dal regista, Mani Kaul, è un sabotaggio discreto alle norme vigenti del linguaggio cinematografico, ma alla fine vinse la scommessa e il suo lungometraggio d’esordio si aggiudicò prestigiosi riconoscimenti in patria.

Il west straniante di Robert Altman. “I compari” e la revisione del mito

Il western è sempre stato lo specchio degli Stati Uniti, il genere epico per eccellenza, celebrativo della storia nazionale e spesso investito dell’onere di rispecchiarne i valori. Era già da diversi anni, quando usciva nelle sale I compari, che la cultura e il cinema statunitensi venivano revisionati sotto uno sguardo critico e disilluso. Complice anche la guerra in Vietnam, già bersaglio della satira altmaniana, si viene a creare un clima culturale di ripensamento sul ruolo della nazione nel mondo. Il western, di conseguenza, in quegli anni viene posto sul tavolo operatorio e dissezionato, smembrato e ricomposto tanto da esordienti quanto da veterani, talvolta con nostalgia e altre con spregio.

“Uppercase Print” e la parodia del regime

Presentato alla Berlinale, Uppercase Print e il suo autore, Radu Jude ci ricordano una volta di più quanto negli ultimi anni la Romania stia sfornando nuovi talenti a profusione, come una vena inesauribile, rendendola una delle cinematografie europee più interessanti del momento. Jude si confronta con la storia di una nazione che ancora non accettava d’essere Europa, né di allinearsi completamente alla politica Russa, scegliendo invece di crogiolarsi in un’illusione autarchica fatta di persecuzioni e filastrocche. Vengono mostrati spezzoni di programmi tv dell’epoca, alternati con messinscene asettiche e apatiche di indagini poliziesche, e null’altro. Quel che emerge è un cortocircuito fra storia e messinscena, inscindibili l’una dall’altra, i cui contorni si sfumano e amalgamano reciprocamente.

In ricordo di Kim Ki-duk

Viene a mancare uno dei pilastri del cinema asiatico, Kim Ki-duk. Una presenza significativa ma discreta, simile alla sua arte e, infine, alla sua dipartita. Quello che ha sempre descritto nei suoi film è un mondo imperfetto, dove la morte, la violenza e le peggiori pulsioni si esprimono sottovoce, appena percettibili, un mondo che forse non ha mai sentito veramente suo. Difficile non scorgere nelle sue prime opere un senso di inadeguatezza, di emarginazione, dello straniamento degli ultimi nei grandi contesti urbani, forse lo stesso sentimento che provò sulla propria pelle durante gli anni a Parigi, o forse solo le intuizioni di un uomo proteso oltre la decadenza materiale.

Non pensare troppo – Speciale “Tenet” II

Per una buona metà Tenet si trascina a fatica fra lunghissime spiegazioni e dialoghi interminabili il cui scopo si esaurisce dopo pochi minuti in scene d’azione a metà fra Mission impossible e 007. Da un certo punto il film si risolleva, non tanto perché questo schema viene alterato, quanto perché si insiste maggiormente sul potenziale spettacolare degli effetti temporali, vero centro d’interesse del film. Come di Inception ricordo solo i palazzi che si contorcevano su sé stessi, così a poche ore dalla visione di Tenet non mi viene in mente il nome di un singolo personaggio ma solo delle automobili in retromarcia.