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“La zona d’interesse” speciale IV – La posizione dell’osservatore
L’ultimo film di Jonathan Glazer è davvero una riflessione sull’etica dello sguardo? Le immagini vivono di quella che Michele Guerra, parlando proprio delle immagini della Shoah, chiamava pressione del fuoricampo? Forse sì, ma proviamo qui a cambiare il punto. Forse questo film ha meno a che fare con lo sguardo e più con il concetto di posizionamento. Forse non si pone la questione di cosa e come guardare, ma di cosa e come posizionare. Più che un’osservazione, La zona d’interesse sembra un rilievo topografico.
“Enea” che prima afferma e poi nega se stesso
Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.
“La chimera” e l’insistenza delle rovine
I tombaroli di Alice Rohrwacher cercano l’Etruria e non l’Italia, vogliono gli oggetti, i soldi, il riscatto, eppure pedinandoli il film scava gli strati, non alla ricerca di linee temporali, ma dei punti di insorgenza. Non l’origine, ma la nascita delle condizioni. Non la cronologia, ma il “tempo profondo”. In questo senso l’archeologia sembra una futurologia, una ricerca dei futuri perduti, di quelli non scelti. La cultura etrusca come società a genealogia femminile, matriarcale.
“El Conde” nel vampirismo della Storia
Larraín, nella sua satira, con una buona intuizione, racconta come oggi l’eredità politica sia sempre coscientemente slegata a una corrispettiva responsabilità politica. Per quanto evidente e servita, la metafora rimane precisa. E per storpiare un’abusata frase di Fredric Jameson – stando a questo film e all’eredità dei personaggi trattati, alla società contemporanea, al neoliberismo e alla fine della Storia – è ancora molto più facile immaginare la fine di un vampiro che la fine del capitalismo.
“Invelle” in nessun posto in particolare
Invelle, il primo lungometraggio animato di Simone Massi – noto ai più per i suoi cortometraggi e al festival di Venezia per manifesti e sigle – sembra immergersi in un subconscio italiano fatto di soprusi e violenze, di rabbia e di vendette. E chiedersi: cosa ci faceva paura? Cosa ci faceva arrabbiare? Cosa ci spingeva alla violenza? Al dolore, agli addii, alle miserie? Invelle è il non luogo della provincia italiana, il “nessun posto in particolare”.
“Enea” che afferma e poi nega se stesso
Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.
“Evil Does Not Exist” tra pace e conflitto
Il cinema di Hamaguchi, quello che si manifesta nei silenzi, nelle dispersioni e nelle deviazioni, quello che trova la sua essenza nei galleggiamenti lievi, c’è tutto. Così come i suoi paradossi. Se Drive My Car, un film quasi del tutto fatto di dialoghi, si fondava attorno al primato del gesto sulla parola, in Evil Does Not Exist gli incessanti movimenti fondano un primato della stasi sul movimento, primato della conservazione sul progresso, della difesa sull’attacco, della natura sul resto.
“Aggro Drift” come conflitto estetico oltre il cinema
Aggro Dr1ft è un lavoro di linguaggio e di media, di visualizzazione digitale. Un luogo di conflitto estetico. Post-cinema o meno è indispensabile andarci, seguirlo e vederlo. Aggro Dr1ft non è neanche un film, ma un’immersione psichedelica in una Miami crepuscolare abitata da assassini. Volendo evidenziare un discorso sui dispositivi, sui supporti visivi e sulla cultura visuale contemporanea, Korine prova ad andare oltre il cinema passando all’immaginario videoludico.
Senza un altrove. Una lettura trasversale dell’ultimo cinema d’animazione Disney/Pixar
A volte l’altrove è circoscritto prima e dopo il film (Elemental), a volte è proprio un tema, un orizzonte ambito ma impossibile da raggiungere (Lightyear, Strange World), a volte non è proprio contemplato (Encanto, Red). L’avventura è limitata da ostacoli tecnici (l’astronave di Lightyear), geologici (le montagne di Strange World), sociali (i confini di sicurezza di Encanto). Non si può andare oltre. Cartografia del recente cinema d’animazione.
“Macario” di un candore surreale
Se oggi, quando parliamo di cinema messicano, pensiamo al famoso trio composto da Cuarón, Iñárritu e Del Toro in parte è anche grazie a quell’ideale “passaggio di dogana” che gli è stato concesso e celebrato negli Stati Uniti con le rispettive nomination e vittore dei premi Oscar. Bisogna però sapere che il primo ad aver attraversato questo ideale ponte “cine-geografico” è stato proprio Roberto Gavaldón: il primo ad aver portato, nel 1961, un film messicano tra i nominati all’Oscar a miglior film straniero (nella cinquina insieme a nomi come Clouzot, Pontecorvo e Bergman) proprio con il suo Macario.
“Il grido” di aiuto ai margini del mito
La traiettoria del film potrebbe prevedere il protagonista come un nucleo e le vicende (ovvero i vari personaggi secondari) come episodi che gli orbitano attorno, mentre invece è proprio il contrario: ne Il grido si assiste a un satellite e a tanti cambi di orbita. Ci sono movimento e velocità (gare di pugilato e di motoscafi, locali da ballo, fabbriche che svettano come relitti della modernità e collettivi movimenti di protesta) eppure vengono sempre rifiutati, stanno in profondità, alle spalle della solitudine e del silenzio.
“Il dono” e i primi passi nel cinema del reale
A rivedere oggi Il dono sembra quasi di assistere ai primi passi di quello che è stato uno dei fenomeni (o delle avanguardie o delle tendenze, che dir si voglia) più segnanti del cinema italiano del nuovo millennio, di quella riscoperta dell’Italia, di quella rielaborazione dello sguardo documentario che si riconosceva (e in parte ancora oggi si riconosce) nel termine “cinema del reale”, quello delle pratiche documentarie più attente e consapevoli dell’immagine, quelle che sperimentano nuove strategie di autenticazione, in particolare attraverso una ricerca costante di nuovi intrecci tra la natura finzionale e quella documentale.
Il paesaggio e il fucile. “Banditi a Orgosolo” tra piatta esistenza e burrascosa tragedia.
Banditi a Orgosolo sembra neorealismo in purezza (la stessa sequenza di eventi, così come l’organizzazione dei personaggi, sembra tanto guardare a Ladri di biciclette, finale compreso), eppure parla anche di altro. Parte dal vero, dall’esplorazione etnografica e dal lavoro con il territorio (gli attori non professionisti per esempio), per arrivare a un regime di finzione che sembra porsi quasi come un sistema di tutela per il paese.
“Beau ha paura” in un’odissea con una vita in mezzo
Beau ha paura è un’odissea con una vita in mezzo (una nascita all’inizio e una morte alla fine). Il punto A è l’appartamento di Beau e il punto B è la casa della madre. Nel tragitto ci sono un’altra casa e un bosco. Poi dei senzatetto minacciosi, genitori apprensivi e compagnie teatrali espansive. I luoghi sono suddivisi con ordine e ritmo, il resto è un labirinto in cui tutto riconduce alla madre, ma rimanda sempre al protagonista.
“As Bestas” e l’istinto animale del presente
Sorogoyen realizza un film sui divari sottili del nostro presente, scendendo in profondità nelle motivazioni, alle origini degli strappi. Come i lentissimi e quasi impercettibili zoom in che ricorrono nel film, As Bestas delinea il particolare, partendo da un tutto che già di per sé era circoscritto. L’investigazione sembra nascere nel rapporto tra spettatore e personaggi. Sorogoyen si avvicina agli intrecci con lunghi dialoghi, discussioni e confronti per scovare l’estremamente umano che allo stesso tempo è estremamente “bestiale”.
Chi è il colpevole? Note sul recente cinema italiano
È come se il cinema italiano, in film come Gigi la legge, Mixed by Erry, L’ultima notte di Amore non fosse in grado di guardare in faccia il colpevole. Lo tiene in disparte. Non sa chi è, anche se spesso sembra trovarlo nei piani alti, nei poteri segreti e impuniti. Atterrito in un oceano di complessità, sembra trovare una sua onestà nel racconto del colpevole minore. Riduce i fatti a questioni private (il confronto tra Milano e Amore è schiacciante) e personali (amore in Mixed by Erry e famiglia in L’ultima notte di Amore).
“Rumore bianco” e lo spettacolo della morte
Baumbach mette in moto la “macchina spettacolare” del suo cinema per la prima volta, celebrando quel paradosso dell’esibizione del disastro, decidendo di dare spazio all’azione come mai gli era capitato di fare. Tra esplosioni e inseguimenti costruisce il contrappunto tra uno e tutti, singolo e massa, privato e pubblico, dove la massa è esorcizzazione e il singolo è angoscia. Per un film però molto più interessato, come detto all’inizio, alla via di mezzo delle traiettorie private, familiari e sentimentali, anche in termini di protagonismo e voce narrante.
“The United States of America” e l’America come sineddoche
C’è già stato un The United States of America nella filmografia di James Benning – tra i più radicali registi del cosiddetto slow cinema – era un corto del 1975 girato insieme alla moglie in cui, tramite una cinepresa montata nei sedili posteriori della loro automobile, riprendeva estratti di paesaggi americani incontrati nel loro viaggio da una costa all’altra. Tra quel corto e oggi c’è stata la rivoluzione digitale che ha stravolto il suo modo di concepire il cinema, ma l’inclinazione al road movie non è svanita. Oggi James Benning torna a quel titolo con un nuovo lungometraggio, presentato a Berlino e in concorso all’ultima edizione di Filmmaker a Milano
“Bones and All” e l’America fagocitata
Bones and All, come immaginabile, è un film che parla dell’affrontare la propria natura, combatterla, accettarla, contrattarla e interpretarla eticamente. Maren lo fa confrontandosi con diverse personalità: anziani che ritualizzano il processo, adulti che si “autocannibalizzano” e giovani che procedono con un’etica personalissima ma non sempre stabile. Tanto da poter affermare che la differenza generazionale, secondo Bones and All, è anche e soprattutto qualcosa che ha a che fare con l’etica e la morale.
Moltitudini, split screen e visioni impossibili
In queste ultime settimane di uscite cinematografiche, lo split screen sembra essere tornato come accorgimento stilistico prediletto. Non sono pochi i film che ne hanno fatto uso. Se si pensa a qualche titolo, Vortex e Omicidio nel West End sono i primi due che saltano alla mente e, seppur diversissimi, riescono a dirci qualcosa sul cinema contemporaneo. La differenza principale tra i due film sta nella giustificazione della scelta stilistica. Se da un lato Omicidio nel West End sceglie lo split screen per imporre un’identità, che guarda molto alla commedia autoironica di Wes Anderson, Vortex invece mette in campo una vera e propria riflessione sul dispositivo.