Nel borgo toscano di Monticchiello, alla fine degli anni Sessanta, in concomitanza con la crisi sociale e demografica, la popolazione decise di rinnovare l’antica rievocazione medievale, fulcro della stagione estiva, per proporre una nuova concezione di spettacolo, legata al presente ma memore del passato. Nasce, così, l’autodramma, una sorta di autoanalisi collettiva sul senso del vivere proprio in quel posto, espressa da una rappresentazione artistica consapevolmente non-professionista nella quale ogni abitante recita un se stesso che è al tempo stesso pluralità. È il “teatro povero”, che da cinquant’anni presidia quel luogo con la speranza di scuotere la coscienza, la gioia data dal condividere un progetto comune, l’angoscia di non poter definire il futuro.

Dopo aver rielaborato, nella prima edizione, la traumatica esperienza della guerra civile, la compagnia-popolazione ha ripensato il passato della mezzadria attraverso gli stimoli provenienti dal presente, preservando il valore di un’identità culturale e territoriale messa in pericolo da agenti esterni perturbanti, fino ad arrivare all’oggi dominato dall’infinita crisi che si proietta anche sulla tenuta della stessa comunità. Spettacolo racconta l’ideazione, la preparazione e l’allestimento di una delle ultime recite, incentrata sulle conseguenze morali del dissesto finanziario mondiale.

Parallelamente alla Lehman Trilogy del “teatro ufficiale”, anche il teatro povero s’interroga sulla complessità di interpretare l’incomprensibile del contemporaneo attraverso gli strumenti della drammaturgia dal vivo, pur ovviamente con mezzi inferiori e una differente ispirazione. Sarà, forse, per il fluente pelo bianco e la predilezione per le macchine (il palco come un’architettura dinamica in contatto con lo spazio urbano), ma Andrea Cresti, fondatore, attore e poi regista, è una specie di Luca Ronconi dell’underground rurale, deus ex machina – è il caso di dirlo – di un racconto corale che, mettendo in scena la sfiducia nel globale, trasmette la preziosità di un’esperienza fondata sul locale, sull’adesione, la partecipazione, la forza di volontà.

Lo sguardo estraneo di Jeff Malmberg e Chris Sellen non è lo stesso di chi arriva in Val d’Orcia per riscattare fatiscenti poderi da riconvertire in ville turistiche: i due registi sanno cogliere con rispetto ed amore l’anima resistente di questo paese distaccato ma non avulso dal divenire mondiale (le locandine delle edicole rivelano la disperazione, la paura, l’ansia della provincia sofferente). Con una struttura simile a quelle delle recite (tre atti, cioè tre stagioni, e un epilogo), non escono mai dal paese, si adeguano allo sguardo dei protagonisti, raccontano soprattutto una storia di anziani che è pure la Spoon River della loro comunità. Non casualmente, il film si apre anche con l’addio ad Alpo, tra i fondatori del teatro, vittima della più crudele delle malattie. Spettacolo è una celebrazione della memoria, un album di facce scolpite dal tempo, un omaggio alla potenza delle comunità e, perché no, un piccolo capolavoro.