Il piacere della visione. Guardare Un condannato a morte è fuggito in pellicola significa ritrovare la fotogenia dei gesti del cinema di Bresson intatta, e accarezzare le rughe della copia come fossero altrettanti segni di interpunzione emotiva. Cinefilia Ritrovata ha sempre avuto un atteggiamento aperto e appassionato nei confronti delle proiezioni digitali, facendosi portatrice di un’idea cinefila a 360 gradi, capace di superare d’un balzo gli steccati tecnologici e i conservatorismi estetici. Eppure, pochi autori come Bresson – visti in pellicola – guadagnano ancora più aura. 

Di questo film, Adelio Ferrero scriveva: “È un cinema rigoroso, severo, quasi scientifico. Il mondo intero ridotto a otto metri quadrati. Finirebbe per essere un unico, insistente, monocorde, monotono tema, se non fosse per i riflessi che arrivano dal mondo di fuori. Sono appena frammenti di immagini, voci interrotte, suoni sconnessi, ma è proprio la loro presenza, il modo profondo e poetico in cui sono intrecciati, e quasi si può dire orchestrati entro quell’unico tema, che fa l’inconfondibile vita e potenza del film”.

Esattamente nel 1956, sessant’anni fa, a sua volta Eric Rohmer dedicò a Un condannato… un bellissimo scritto sui “Cahiers du Cinéma”, dove parlava di “miracolo degli oggetti”, insistendo sulla grazia e l’evidenza sconcertante che la verità delle cose assumeva di fronte alla macchina da presa di Bresson. In termini più filosofici, Deleuze indagò anni dopo il giansenismo stilistico del cineasta, analizzando l’intero suo cinema in alcune delle pagine più belle di L’immagine-tempo, dove affronta il concetto di “tatsegno” (opsegno più sonsegno) nel cinema moderno.

Un film che si apparenta a un altro capolavoro che vedremo al Cinema Ritrovato – nella sezione dedicata a Jacques Becker, curata da Bernard Eisenschitz – ovvero Le Trou, opera conclusiva della carriera di questo altro, grande maestro transalpino. Daney diceva che con Il buco Becker mostrava di essere”l’unico che sapesse filmare l’idea stessa di libertà”.