Il giorno di Natale del 1977 scompare l’uomo che ha creato il personaggio più amato del mondo. “Cusì te se’ ndat anca ti Sarlòt”, scrive Andrea Zanzotto che immagina di vederlo scivolare via leggero verso un punto lontano con la sua inconfondibile andatura. Proprio quando sta per essere assunto in cielo, al poeta viene il dubbio che il Vagabondo abbia escogitato un’altra delle sue burle, nascondendosi come fanno i bambini e prendendosi gioco persino della morte. È così che il bambino Federico incontra per la prima volta l’omino con la bombetta, in quella stessa atmosfera natalizia, un po’ magica e festosa e allo stesso tempo piena di attesa trepidante:

“Charlot mi è apparso tra i panettoni, le stelle comete, la neve, Papà Natale, cioè una figura che già nel suo apparire apparteneva a qualche cosa di mitico, di eterno qualche cosa di ghiotto, di goloso, un omino al quale dover gratitudine. Io poi, con l’attrazione per il circo e per i clown, certo come Pinocchio quando incontra i burattini, me lo sarei abbracciato”.

Charlot entra prestissimo nell’immaginazione vorace di Fellini. Luogo mitico del loro incontro è il circo al quale Fellini sente subito di appartenere. E proprio Il circo (1928) è il film che Fellini dichiara di amare di più perché contiene “tutto il mondo di Chaplin, tutte le sue ambiguità, risolte però nella vera poesia; gli sembra che si liberi da tutto il chaplinismo, il vagabondo e la poetica del vagabondo, e la polemica sociale, per rimanere soltanto un piccolo gioiello di autentica poesia cinematografica”. Il nucleo originale dal quale poi sarebbe nato il film è lo sviluppo di una gag che mette Chaplin in una posizione da cui, per una ragione o per l’altra non può fuggire: “Mi trovo in alto, turbato da qualcosa d’altro, dalle scimmie o dalle cose che mi succedono e di cui non riesco a liberarmi” - confida Chaplin al suo amico e collaboratore Henry Bergman poco prima di iniziare la produzione del film. Si trova sospeso nel vuoto, senza rete di sicurezza sopra la pista del circo. La sua cintura di sicurezza si allenta e contemporaneamente viene aggredito dalle scimmie che gli portano via i pantaloni, mettendo a nudo le sue gambe; nella fretta di indossare il costume ha dimenticato di infilarsi la calzamaglia.

L’incubo è spesso alla base del comico e quello che Chaplin crea per se stesso fa emergere la sua paura nei confronti del pubblico, il timore di non essere in grado di mantenere il successo e visto in prospettiva, in questo film si può già scorgere il germe da cui si svilupperà il tema di Luci della ribalta (1952). Sotto lo chapiteau di Il circo è l’azione comica involontaria che scatena l’ilarità collettiva, mentre davanti al pubblico dello spettacolo di varietà, il vecchio clown trova drammaticamente confermate le sue angosce; da un lato la consapevolezza di aver perso la vis comica e dall’altro pone implicitamente i rapporti dell’uomo Chaplin con il suo personaggio.

Se si sostituisse la frase del proprietario del circo “ti conviene far ridere” con “ti conviene fare un buon film” ecco che con un piccolo gioco di prestigio al posto di Chaplin/Charlot si materializza Guido, il protagonista di 8 e ½ (1963) che si trova, appunto, in una situazione dalla quale vuole scappare. Se come scrive Jean Starobinski, l’altezza vertiginosa è al contempo la dimensione del clown acrobata e l'allegoria dell’atto poetico e creativo, allora, si può immaginare Fellini come un funambolo che, per attraversare l’abisso che lo separa dal suo film, mette in scena i propri incubi, fobie e desideri, compiendo metaforicamente un numero acrobatico che non ha bisogno di nessuna giustificazione al di fuori sé. Ciò che libera Fellini/Guido, ciò che lo redime è un atto d’amore nei confronti del mondo dell’arte, un atto di fiducia totale nelle infinite possibilità di combinazione della sua fantasia. Similmente Chaplin/Charlot si libera delle proprie angosce rappresentandole in forma di pura poesia visiva.

Fellini in 8 e ½ raggiunge la piena consapevolezza di voler usare il cinema per esprimere al massimo le potenzialità delle sue fantasie oniriche, allontanandosi definitivamente dal cinema come mimesi della realtà. E cos’è se non un atto d’amore verso tutte le sue creature, passate presenti e future il girotondo conclusivo del film? È curioso che durante le riprese di 8 e ½ alla macchina da presa fosse appesa la nota: “ricordati che è un film comico”. È forte la tentazione di interpretare queste parole non solo come un monito a non prendersi troppo sul serio, ma anche in un senso più propriamente registico. Vi si potrebbe scorgere l’intenzione di imprime al film un certo ritmo, una cadenza specifica, giocando sulla flessibilità della linea che separa il sogno dalla supposta realtà, rompendo così gli schemi della struttura narrativa in senso classico e proponendo al suo posto una costruzione che si fonda sulle variazioni di un unico tema, il processo creativo, al cui centro c’è Fellini/Fellinia.

Si può a questo punto supporre che la rivoluzione cinematografica felliniana affondi le sue radici proprio nella tradizione culturale comica, nel senso più ampio del termine, “nell’arte del far spettacolo” di cui Chaplin, “è una specie di Adamo, un progenitore da cui tutti quanti più o meno si discende”. Spingendosi in questa direzione Il circo, risulta essere tra i film di Chaplin quello dal quale con maggior evidenza emerge una struttura circolare, costruita “attorno a un tema e a delle varianti, ovvero gli elementi di una composizione musicale”. Ed ecco che a suggellare questa ideale amicizia tra Chaplin e Fellini, questo rapporto maestro/discepolo entra in scena la musica.

La Titina e La marcia dei gladiatori sono motivi che accompagnano Fellini sul set di quasi tutti i film perché - come dichiara lui stesso – “legati a precise emozioni, temi viscerali”. Sarà una coincidenza e se lo è stata di sicuro una delle più fortunate leggere che l’enfant prodige, Nino Rota ricorda il suo primo impatto con il circo Medrano a Parigi come un’esperienza indimenticabile, uno spettacolo entusiasmante, ancora più che per la presenza dei clown, per l’ascolto di quella musica. Pier Marco De Santi ricorda che “l’incontro con il circo, i clown, l’amicizia con i Fratellini sono stati per Rota un evento fondamentale, così come – pochi anni dopo – i clown sono stati non solo un’apparizione dell’infanzia, ma l’anticipazione di una vocazione, l’annunciazione fatta a Federico Fellini”.

Al termine delle riprese di 8 ½ lo stesso Fellini dichiara che di Rota ci sarebbe stato un solo motivo, “una deliziosa marcetta da circo equestre”. In realtà il lavoro svolto dal compositore è stato molto più lungo e complesso e la sua marcetta diventa l’emblema musicale della clownerie felliniana: un brano che “si carica” durante lo svolgimento del film fino a risolversi nella fantasmagorica passerella finale.

Similmente in Il circo la risoluzione della tensione è rimandata attraverso l’orchestrazione di una serie di variazioni del finale che Walter Benjamin sapientemente descrive in The Circus. Selected writings, 1927-1934. L’impressione che se ne ricava è che il film non si sia concluso; il Vagabondo invita lo spettatore a seguirlo nel suo prossimo viaggio che è di fatto già cominciato. Ciò che incanta Fellini è l’eleganza con cui Chaplin/Charlot si libera delle sue paure profonde, dando loro letteralmente un calcio, pronto a ricominciare tutto da capo:

“Mi è sempre rimasta l’impressione che non fosse vero l’aspetto pietistico, non fosse vero il sentimento di commozione che ispirava, perché in effetti questo vagabondo era felice, era felice come un animale, come un gatto mi sembrava che avesse anche proprio la salute, l’agilità, qualche cosa di graffiante e anche l’inavvicinabilità.”

Fellini è un gatto sornione, un saltimbanco dal cui cappello magico fanno capolino le facce dei personaggi che popolano la sua fantasia; tutti pretendono di essere presi in considerazione, di essere amati, di avere un’esistenza. Come Chaplin, predilige gli umiliati, le vittime, coloro che vivono una dimensione 'altra' perché possiedono la scintilla delle anime candide e la saggezza dei folli. Partendo da queste considerazioni si ha l’impressione che le affinità, i rimandi, gli echi tra l’uno e l’altro autore si moltiplichino, si amplifichino.

Chaplin riconosce che ogni uomo può essere un filosofo, dal re all’operaio, ma al clown e a coloro che abitano il mondo dell’arte, in questo caso l’universo circense, riconosce la capacità di saper vedere oltre, letteralmente, di materializzare ciò che è invisibile. Il circo è infatti quel luogo/non-luogo in cui l’uomo può misurarsi tanto con l’abisso quanto con l’altezza vertiginosa e dove può mostrare la vera natura della sua anima, il suo mondo interiore, i suoi sogni e suoi incubi; è precipitando, nella dilatazione infinita della caduta, che la sua natura angelica si rivela. Ecco che sotto la bombetta al posto “di quella faccina con quei baffi neri, quegli occhi un po’ abbaglianti da gatto” si vedono comparire il viso e le fattezze di Gelsomina.

Nell’istante esatto in cui Chaplin sceglie e indossa gli abiti di scena, si compie il miracolo; si ha l’impressione che il personaggio esista già e da tempo immemorabile e che stia semplicemente aspettando qualcuno che lo chiami dalla dimensione “altra” in cui si trova. Fellini stesso non crea Gelsomina ma gli appare “nelle vesti di un clown, e subito accanto a lei, per contrasto, un’ombra massiccia e buia, Zampanò”. Gelsomina si può scorgere nei sogni del Vagabondo, nelle vesti di un angelo in Il monello (1921) e in quelle di un marito soddisfatto che dopo una dura giornata di lavoro torna dalla sua compagna che lo aspetta sorridente sulla porta di casa in Tempi moderni (1936); la si vede far capolino nell’espressione di infinita tristezza del povero cercatore d’oro che fugge la disillusione d’amore facendo danzare due pagnottine di pane in La febbre dell'oro h (1925) e nello sguardo di pura gioia che illumina Charlot quando la fioraia riconosce in lui il benefattore che gli ha ridato la vista in Luci della città (1931).

Non può essere una semplice coincidenza ritrovare nella sceneggiatura scritta da Fellini e mai realizzata di Moraldo va in città (1954), una gag chapliniana, rivisitata in chiave umoristica, della mitica sequenza dell’incontro tra il Vagabondo e la fioraia cieca. Moraldo scende le scale con la signora Contini, la direttrice della rivista 'Vita e Lettere', alla quale ha appena chiesto un lavoro. Passano davanti ad un bar e la signora decide di fermarsi a bere qualcosa. Moraldo, con un gesto abile, controlla di avere abbastanza denaro per pagarle la consumazione, ma il sollievo di trovarsi in tasca più del necessario dura un istante. Dal nulla sbuca una piccola fioraia ambulante che mette un mazzolino di fiori sul tavolo. In un lampo Moraldo si trova senza soldi e con in mano i fiori comprati per la signora che imbarazzata se ne va, sparendo dentro un taxi. Scende la sera e Moraldo guarda da lontano la città che s’illumina. È di nuovo solo, si sente stanco e pieno di amarezza, sembra che la fine sia arrivata e invece con lo stesso guizzo imprevedibile del Vagabondo s’incammina per la strada, prima a passo lento poi, preso da un’esuberanza irragionevole, aumenta l’andatura e le luci della città gli sembrano gaie e i volti della gente che incontra gli sembrano meno ostili.

Fellini predilige i finali aperti; ogni suo film non si esaurisce nella durata dei suoi limiti di tempo, ma continua in quello che segue, secondo la logica del Vagabondo che per la strada raccoglie impressioni, sentimenti, incontra tipi umani e situazioni, all'infinito. Il sorriso di Moraldo diventa quello di Cabiria, la piccola prostituta dall’anima semplice e dalla speranza radicata. Spogliata di tutto, del suo denaro, del suo amore, si ritrova, svuotata di se stessa, su una strada. Ma non è finita. Improvvisamente, appaiono un gruppo di ragazzi e ragazze che la circondano, danzando e ballando e Cabiria, “dal fondo del suo nulla, risale dolcemente alla vita”.

Foto tratta da L. Pestelli, Nel cerchio magico del clown, 'La Stampa', 24 dicembre 1970, Fondo Calendoli