La giuria del Festival di Berlino del 1987 assegnò l’Orso d’argento per il miglior attore a Gian Maria Volonté per Il caso Moro (1986), ricostruzione dei 55 giorni di sequestro dello statista democristiano. Unico italiano in concorso, il film godeva del carisma del mimetico protagonista – inattivo da tre anni, già ipotesi di Moro in Todo modo un decennio prima – e, nel raccontare uno degli eventi più traumatici degli anni di piombo con padronanza dei dati, suscitò molte polemiche nell’arco costituzionale. Tutto ciò per dire che il regista Giuseppe Ferrara non era né un auteur da festival (Berlino resta un unicum) né troppo amato in patria (i suoi film sono stati sequestrati, ritirati, censurati…). Le schede del Morandini ci offrono un quadro abbastanza completo delle critiche rivolte a questo cinema “utile e senza stile”, “rozzo”, “schematico e rigido”, che “ignora l’arte dei particolari” e “usa la mazza quando sarebbe necessario il rasoio”.

Lo stesso premio a Volonté – autore di se stesso – mette in evidenza la discutibile direzione degli altri attori, tra trucchi posticci o bozzetti caricaturali. È una marca tipica dei film di Ferrara, che raggiunge lo zenit ne I banchieri di Dio – Il caso Calvi (2002), dove addirittura papa Wojtyla è ripreso di spalle “per rispetto” mentre discute con un Andreotti da Bagaglino. Ma questo “teatro dei pupi” sembra, però, essere fondamentale ai fini del discorso: il cinema di Ferrara è la didascalica messinscena di un’inchiesta. Nel filone civile italiano, attinge a tutti e non somiglia a nessuno. Ha il rigore di Francesco Rosi nella ricerca della verità negata dal potere, senza la sua ambizione epica. Come Elio Petri, si fa suggestionare dal carnevale nero, astenendosi dalla follia grottesca. È nel solco della pubblic history di Carlo Lizzani ma con meno cautele e taglia i fatti con l’accetta di Pasquale Squitieri.

Dopo aver realizzato cortometraggi sociopolitici ed etnologici, esordisce nel lungo con Il sasso in bocca (1970), un cine-saggio con fiction e repertorio, presagisce il linguaggio della docufiction televisiva. Faccia di spia (1975) parte dai documenti per costruire uno strano oggetto tra la denuncia contro informativa e il torture politico. Con lo sceneggiato Panagulis vive (1982) chiude una sorta di trilogia fondata sull’approdo dell’inchiesta giornalistica ad una personale concezione dello spettacolo d’autore – ed appare oggi incredibile che la Rai trasmettesse quattro prime serate così, peraltro osteggiate da Oriana Fallaci, compagna del rivoluzionario greco.

Senza mai rinunciare ai documentari puri, il progetto educativo di Ferrara trova un proprio spazio al tramonto della Prima repubblica, cercando di trasformare la cronaca in storia. Con Il caso Moro, Cento giorni a Palermo (1984) e Giovanni Falcone (1993) sono, forse, gli instant movie più famosi del nostro cinema, girati un anno dopo le tragedie raccontate e adottati in cineforum e rassegne a scopo didattico. Usando la materia che ha dato linfa vitale alle fiction televisive degli ultimi decenni, Ferrara delega il pathos alle star (Lino Ventura, Michele Placido, Giancarlo Giannini) e mette in scena i fatti filtrando l’indignazione della coscienza di sinistra con lo sguardo fenomenologico dell’osservatore. All’inizio del secondo millennio, si è ritrovato ad essere pressoché l’unico – assieme al greve Renzo Martinelli e, più occasionalmente, Marco Tullio Giordana – a frequentare al cinema le storie della memoria civile per contribuire a creare una coscienza critica. Nonostante i difetti e le mancanze, I banchieri di Dio e lo sfortunato Guido che sfidò le Brigate Rosse (2007) chiudono un’ideale “pentalogia del cadavere eccellente” che copre tutti i livelli (il generale Dalla Chiesa, il politico Moro, il giudice Falcone, il banchiere Calvi, il sindacalista Rossa) e, così antitetici ed antichi, nonché boicottati da chi preferisce l’oblio, sono ammirevoli testimonianze dell’onestà e della testardaggine di un autore mai conciliato.