“La vita è tutto un imbroglio e tu per vivere bene devi stare in questo imbroglio”. L’aforisma proveniente dal primo lungometraggio di Bonifacio Angius, Perfidia (2014) potrebbe essere scolpito al principio di ogni suo film, preso in prestito a sintesi estrema della sua ispirazione, condensando, di fatto, la poetica del regista in questo sentimento nichilista della vita, non privo di una potentissima rabbia di rivalsa su un mondo escludente che non lascia spazio agli ultimi, agli inetti, agli individui lasciati fuori dalla casta.

Così anche nel suo ultimo film I giganti, premiato ad Annecy con il premio per la migliore regia (giuria giovani) e unico film italiano in concorso al Festival di Locarno 2021, Angius sceglie una trama senza apparente via d’uscita per costringere i personaggi in una situazione che potrebbe essere percepita come claustrofobica, se non fosse in realtà lucidamente scelta, voluta e infine portata alle estreme conseguenze dai suoi protagonisti (con ineludibili e audaci echi ferreriani).

Un gruppo di quattro vecchi amici decide di organizzare una rimpatriata nella casa di uno di loro, sperduta e isolata, in una vallata della Sardegna. Il ritrovo si traduce presto in un festino ininterrotto a base di alcool e droghe (crack, speed, cocaina), durante il quale le solitudini dei protagonisti si rifugiano nella confessione collettiva di ricordi, sconfitte, progetti di vite andate a male. In questo movimento di fuga dal presente, che i quattro amici portano avanti come una “morte a passo di valzer”, si insinua il germe di una angoscia di vivere destinata ad implodere in un finale autodistruttivo.

Il progetto del film nasce a maggio 2020, in piena pandemia. Bonifacio Angius, prendendo un caffè con il suo sceneggiatore e amico, Stefano Deffenu, ripensava a questa sua vecchia idea nel cassetto di “un personaggio che spara al quadro dei nonni in cucina” e ripensandoci mormorava “se lo meritano i tuoi nonni erano dei savoiardi tagliagole”. Pare che in quel momento esatto, come in un lampo, sia partita la preproduzione del film, che già in agosto avrebbe visto il suo primo ciak. Angius costruisce ancora una volta un set intimo e familiare chiamando a raccolta i suoi attori amuleto (Michele Manca, Stefano Manca, Stefano Deffenu stesso, Noemi Medas, Francesca Niedda -in un piccolo cameo-, e per la prima volta sullo schermo l’esordiente Riccardo Bombagi), e li isola per tre settimane di lavorazione in una casa nella sperduta campagna sarda.

Questa volta, anche per limitare i rischi pandemici, fa tutto lui, regia, attore protagonista, musiche originali e persino il responsabile Covid sul set. A chi gli sconsigliava di fare un film sulla pandemia, rispondeva che “solo registi mediocri non si lasciano influenzare da ciò che li circonda”. E così riesce a produrre un’opera sorprendentemente attuale, che scava a fondo nella solitudine e nella disperazione dei suoi personaggi, per parlarci della nostre solitudini e della disperazione, quella che ciascuno ha certamente sperimentato nel periodo buio degli ultimi due anni, nella forzatura di un isolamento sociale e relazionale, che ha segnato le esistenze di tutti noi.

Il risultato di questo lavoro, frutto di un'ispirazione rapida e pulsionale, di una perizia tecnica artigiana e magistrale, e della cooperazione di un gruppo di artisti affiatato e complice è un film straordinariamente bello ed emozionante. Un film capace di detonazioni intime continue, grazie all’impiego incisivo di due elementi, scrittura e fotografia.

Il copione è sceneggiato con un uso sapiente e dosatissimo della lingua, ricco di interiezioni dialettali, ma anche di brevi pennellate capaci di caratterizzare con un guizzo i singoli personaggi, per esempio con rimandi ad un mondo pubblicitario e televisivo di cui, in particolare uno dei protagonisti (Andrea/Michele Manca) è intriso, per età e adesione ad una certa mitologia del successo di stampo berlusconiano. É Andrea, che entra in scena esibendo la sua incontenibile libidine, canticchiando la vecchia hit di Armando de Razza Esperanza d’escobar, che imita lo spot anni ‘80 del The Infrè, per dire che la sua droga tagliata col bicarbonato “è buona qui (porta il cucchiaio sul cuore) ed è buona qui (porta il cucchiaio sulla bocca)”, o ancora che ammette di aver impegnato molto del suo tempo nella visione integrale della serie di Chuck Norris Walker Texas Ranger.

L’asso nella manica de I giganti è certamente la sua matrice di film postmoderno, capace di mescolare più generi in modo inconsueto e innovativo. I giganti (come forse tutto il cinema di Bonifacio Angius) è postmoderno, perché ha il talento di rielaborare, con estrema naturalezza, un patrimonio culturale, letterario, televisivo e soprattutto cinematografico precedente. È per questo che dal primo fotogramma anche lo spettatore meno competente si accorge dei chiari riferimenti all’immaginario, alla grammatica e soprattutto all'architettura visiva (e qui veniamo alla fotografia) e narrativa del genere western.

Non solo nelle numerose panoramiche dall’alto, quelle sui posacenere zeppi di cicche di sigarette e altro, o sulle facce dei protagonisti per terra, ma anche grazie alle luci di Marco Petrucci, il lighting designer, che, come ha dichiarato Angius: “è stato in grado di creare un dialogo narrativo fra luci e ombre, ottenendo una temperatura colore in quella casa dove non c’era niente, e abbiamo rifatto anche gli intonaci, perché io volevo che tutto luccicasse, e girando con una lente buia avevamo bisogno di tanta luce, avevamo tre lampade da cinquemila sempre accese in salotto”. E sottolinea ancora lo stesso Angius, che nel suo ultimo film “C’è molto western, c’è fumo e sudore”. Del resto è forse proprio grazie all’uso della lente Angénieux Optimo 25-250 (la stessa usata da Sergio Leone per C’era una volta il West), che Angius riesce a riprendere i suoi quattro “banditi” con la stessa luce ingiallita, con le stesse ombre piene, con gli stessi contrasti ottici (manichei) tra ciò che è nel buio e ciò che sta sotto il sole del mezzogiorno, ciò che è limpido e ciò che è fumoso.

Se il western tradizionale parlava del sogno americano, il western “da camera” di Angius ci racconta invece della disillusione sarda. Howard Hawks diceva “Il western è la più semplice forma di dramma: una pistola, la morte”. Angius ci ricorda che la matrice comune tra il suo film e il genere western sta nella tragedia greca euripidea, i suoi personaggi sono una crasi perfetta tra l’eroe solitario del west e l’eroe problematico e insicuro di Euripide, carico di conflitti interiori, le cui motivazioni inconsce si tenta di portare alla luce. Alberto Crespi scriveva di Ford che “(...) il western ha sempre messo in scena le contraddizioni della storia americana: morte e salvezza, amore e violenza, crudeltà e speranza, solitudine e comunità”, ed è esattamente quello che Bonifacio Angius riesce a fare con la nostra storia, partendo da un contesto locale di sardità, ma riuscendo a trasfigurarlo in uno scenario assolutamente universale.

Le domande che via via ruotano intorno al personaggio di Massimo/Bonifacio Angius, potrebbero essere domande che poniamo a noi stessi o all’intera platea dell’umanità dopo i fallimenti del modello sociale, ma anche politico e capitalistico, venuti alla luce soprattutto grazie o per colpa della pandemia. “Perché sei triste?” “E come hai fatto a non pagare? E non avevo soldi e non ho pagato”,“Ti droghi anche tu? No? E allora ti masturbi? E sennò che cazzo fai?”, “Perché te ne stai andando? Quando tutti hanno bisogno di te, tu te ne vai”. In questo sotto-testo di denuncia c’è molto anche del cinema di Elio Petri, così come nell’uso disinvolto di alcuni registri stilistici ormai in disuso nella gran parte del cinema italiano, il grottesco, la parodia sarcastica, l’irriverenza, la sperimentazione (visiva e linguistica).

Le sentenze che, come epigrammi, scolpiscono la trama del film e ne intessono la poetica scena dopo scena, proiettano un sentimento livido di sconfitta su I giganti di Angius: Ci sono persone che dicono di fare una cosa e poi ne fanno un’altra, parlano per anni fanno tutti così”, “Io non sono quello che dico e non sono nemmeno quello che faccio”, “Vuoi sapere cosa sto pensando? Che se ci sei o non ci sei non cambia niente, ma che puoi fare? Non puoi fare nulla, puoi pensare a cose vecchie, ma ti accorgi che non serve a nessuno. E ti accorgi che non sei niente e se sparisci non se ne accorgono nemmeno. Questo è il mio mondo”. Un mondo spietatamente nichilista.

Lo stile immediato e senza filtro del cinema di Angius mette a nudo i comportamenti dei suoi personaggi, privandoli dello scudo di qualunque forma di buonismo o dall’ipocrisia del politically correct. È così che, pur nella drammaticità della messa in scena, non sono poche le risate strappate al suo pubblico. Un pubblico che torna a ridere di sé stesso e della propria piccolezza come si faceva, catarticamente, di fronte ai mostri di Risi o alla maschera di un Sordi capace di liberare i nostri compaesani dal tabù della propria dabbenaggine da poco. 

“Questo è un film principalmente sulla mancanza d'amore e sulla consapevolezza di aver perduto per sempre la possibilità di amare, che è una cosa tanto piccola, banale quanto enorme. Con questi personaggi così miserabili ho voluto dire eccoli i giganti: questi uomini che hanno consapevolezza di aver perduto tutto con l’amore. L’uomo è fragile, chi utilizza la violenza lo fa perché è fragile, con questo non lo voglio giustificare, anzi, il mio è un attacco frontale alla pochezza del maschio, ma non in modo retorico”.

Così insieme all’amore (perduto) la grande assenza rimpianta dai giganti è forse quella di una donna alla quale poter attribuire un ruolo salvifico nella accoglienza del supremo dolore di una vita che non trova il suo più profondo significato. I giganti è come un western, anche perché racconta un episodio della vita di questi quattro uomini, accomunati dalla mancanza di un amore o dell’amore in assoluto, e lo trasforma in una parabola quasi biblica alla cui fine, però, non c'è alcuna possibilità di salvezza.

La sofferenza resta rinchiusa nella casa al buio, mentre fuori splende un sole perpendicolare, che illumina attraverso gli scuri le poche fessure lasciate socchiuse dai quattro banditi che continuano a bere e farsi male dentro al loro solitario saloon. “Le cose passano il problema è riuscire a vederle”, potremmo parafrasare anche questo motto e suggerire, sentimentalmente al talentuoso regista, che la luce là fuori risplende, basterebbe lasciarla entrare.