La giovane e bella Gwendolen Chelm (una bamboleggiante Jennifer Jones in parrucca bionda) e il marito Harry (Edward Underdown) sono in villeggiatura in una località di mare del Sud Italia e passeggiando incontrano un gruppo di loschi figuri che soggiornano al loro stesso hotel. La donna tenta di mettere in guardia il marito da quegli uomini poco raccomandabili e quando questi le chiede il motivo, lei seria risponde “Non mi hanno nemmeno guardato le gambe”. La battuta in apertura al film ci indica la cifra stilistica umoristica e del gusto per l’assurdo su cui si snoderà tutto il divertente Beat the Devil (tradotto in Italia con l’improbabile Il tesoro dell’Africa), girato da John Huston nel 1953 con un cast stellare e con la co-sceneggiatura del giovane Truman Capote.

Assieme ai coniugi inglesi Chelm, nel piccolo hotel italiano si trovano infatti anche Billy (Humphrey Bogart) e la sua compagna Maria (Gina Lollobrigida), che si sono uniti ad un gruppo di avventurieri e che stanno tutti aspettando di salpare per l’Africa per realizzare il colpo della vita: comprare con l’inganno e sottoprezzo un terreno ricco di Uranio per poi rivenderlo. Complici l’inaffidabilità dell’equipaggio italiano sempre ubriaco, che fa rimandare la partenza in nave, e la bellezza del luogo di villeggiatura, ben presto si compie l’incrocio amoroso: Gwendolen si innamora di Billy e Maria di Harry. La situazione si complicherà poi ulteriormente quando il quartetto di truffatori – composto da Julius O’Hara (Peter Lorre), Petersen (Robert Morley), Ravello (Marco Tulli)e il Maggiore Ross (Ivor Barnard) – cercherà di coinvolgere la coppia inglese nella truffa, credendo che si tratti di ricchi altolocati e danarosi.

Il film, come sottolineava Roger Ebert, passò direttamente dall’insuccesso al botteghino ad essere ritenuto un cult, soprattutto per l’intento di parodia del gangster movie, di cui Bogart era ormai simbolo. Dall’atmosfera ironica e scanzonata del film trapela il clima rilassato che si respirava sul set italiano, durante il quale si dice che Capote riscrivesse la sceneggiatura di giorno in giorno, di Martini in Martini, mentre Huston, che aveva preso parte al finanziamento del film, assisteva un po’ preoccupato temendo un probabile disastro commerciale.

Ma il film conserva una sua grazia ironica e impertinente, che si prende gioco dei classici gangster, proponendo truffatori disorganizzati, litigiosi e pasticcioni affiancati da un Bogart avventuriero di mezza età e conquistatore stanco. Huston e Capote si divertono poi a parodiare altri stereotipi del mondo del cinema: la donna bella e svampita (una bionda Jones che ammicca alla Monroe), la femme fatale arrivista (una Lollobrigida in scollati abiti da sera fin dal primo mattino), l’uomo serio dall’aplomb britannico (un Underdown che si sente perduto senza la borsa dell’acqua calda ma che non si scompone davanti alla dichiarazione d’amore della moglie per un altro). E anche l’intreccio amoroso e il sospetto di adulterio sono a volte suggeriti e a volte esasperati con un risultato di assoluta comicità.

Gli stessi comprimari contribuiscono alla parodia che va oltre i generi e gli stereotipi e colpisce direttamente famosi personaggi di Hollywood. Come il serioso capo arabo Ahmed, che dopo aver fatto tutti prigionieri con la violenza, si apparta con Billy per chiedergli particolari su Rita Hayworth, le cui foto fanno da tappezzeria alla sua camera da letto. O come il monologo di O’Hara (il cui nome viene continuamente storpiato in O’Horror) sul tempo, che richiama alla mente quello di Orson Welles ne Il terzo uomo: “Tempo, tempo, cos’è il tempo? Gli svizzeri lo fabbricano, i francesi lo accumulano, gli italiani lo perdono, per gli americani è denaro, per gli indiani non esiste. Sai che ti dico? Il tempo è una truffa”.