Per quell’edonista infelice che è Woody Allen perdersi nel meraviglioso mondo delle idee era quasi sempre un’occasione per estraniarsi da una realtà di per sé divisa tra “l’orribile e il miserrimo”, dove la sua perpetua ricerca di piacere non avrebbe mai trovato piena realizzazione. Nello stesso tempo è chiaro quanto il suo desiderio sia infinito e impraticabile, animato da un assiduo stato di mancanza e destinato a dissolversi nel nulla se confrontato con l’esperienza.

In Io e Annie, come nella maggior parte dei film di Allen, i personaggi sono tutti colti nelle loro disfatte e tentativi di colmare questi vuoti d’esistente, inventandosi ambizioni e desideri più disparati e una voglia d’amore che non si capisce bene perché tutti gli uomini l’abbiano. Questo stato di mancanza è una costante del suo pensiero, dall’insoddisfazione nei confronti dell’irrazionalità delle relazioni amorose tra Mary Wilke, Tracy e Annie Hall al senso d’incompatibilità con la realtà del presente propria del protagonista di Midnight in Paris: d’altra parte, anche tra Alvy Singer e Annie Hall c’è prima l’evasione, l’illogico abbandono alla follia del sentimento e poi la coscienza della temporalità e di quanto l’essere umano sia vincolato a tale condizione.

Mentre i protagonisti contemplano i propri vissuti dal di fuori, planandovi dall’alto, lo spettatore coglie la loro intima essenza compiendo un atto di identificazione simpatetica con le loro stesse fragilità e contraddizioni. Alvy capisce di aver compiuto un enorme sbaglio lasciando Annie e lo stesso accade per Ike nei confronti di Tracy in Manhattan, e per entrambi i casi “si potrebbe concludere che da un punto di vista freudiano gli uomini accettano di affrontare le difficoltà delle relazioni amorose solo perché hanno bisogno di uova. O di ovaie”,  aggiunge Woody Allen in un’intervista. In quest’affermazione si condensa forse tutta la specificità del pensiero di Allen, circa la concezione del mondo e il peso occupato dall’uomo nell’universo in continua espansione.

La tragedia e la drammaticità, in tal caso, nel finale di Annie Hall, sono svincolate dalla manovra ironica, in un andirivieni tra melanconia e umorismo mescolati e indissolubili. Facendo parlare gli attori fuori campo, lasciando l’inquadratura vuota o lo schermo nero come durante la scena in cui Alvy e Annie chiacchierano e a un certo punto si vedono i sottotitoli di ciò che stanno effettivamente pensando o quando Alvy si rivolge ripetutamente al pubblico, Allen sovverte il confine tra realtà e finzione introducendo lo spettatore nel medesimo flusso di coscienza dei due protagonisti: tale rottura dell’illusione permette di opacizzare la realtà e dissolvere il dramma nella leggerezza, propria di quella che Calvino avrebbe definito “ironia cosmica”. Il comico, pertanto, non sbeffeggia la realtà, vi plana dall’alto e la rende quanto più vicina possibile con la furbizia dell’artificio.