“Oggi non si può più scrivere una storia, la sceneggiatura è superata giorno per giorno dalla realtà, dalle cose che vedo succedere…” così notava Marco Ferreri in una intervista rilasciata ad Alberto Farassino del 1979. Affermazione ancora carica di verità quattordici anni dopo, quando il regista di Chiedo Asilo (1979) La casa del sorriso (1991) La carne (1991), girava il suo penultimo film.

Nonostante lo stile della pellicola (stile appunto diaristico e annotativo) paia tendere ad una quasi totale negazione della sceneggiatura, sviluppandosi per sintagmi a sé stanti e consecutivi che ritraggono il protagonista in ripetitive scene di vita quotidiana (abluzioni in bagno al mattino, autoerotismo di fronte a televendite televisive, solitarie e pressochè disperate abboffate - piange strappando a grossi bocconi la colomba pasquale - di cibo e di sesso) Diario di un vizio (1993) fu scritto a sei mani con Liliana Betti e Riccardo Ghione e concentra gran parte della sua forza evocativa e simbolica nell’ambientazione delle immagini.

Girato in una Roma quasi irriconoscibile (la spiaggia di Ostia come trasfigurazione del “mare dentro” di Ferreri, la Garbatella reinterpretata come centro di igiene mentale), il Diario di Benito Balducci palpita angosciosamente di una alienazione dalla vita stessa che racconta, proprio grazie al contributo fondamentale delle scelte d’ambiente. In esterni il mare o il traffico della città, i tram, gli autobus, le automobili, i tavolini di un bar, le edicole, le panchine o tutt’al più i backstage squallidi dei set di Cinecittà; negli interni stanze d’albergo, pensioni ad ore, grandi magazzini, sale d’attesa, corridoi. Tutti non-luoghi, direbbero i semiotici, ossia posti che dovrebbero ospitare un semplice passaggio, spazi costruiti per un fine ben specifico, che non dovrebbero essere identitari e relazionali e invece per Benito lo diventano. Benito vive nelle stanze d’hotel, dipende dagli autobus (mezzo di trasporto ideale per chi come lui “non ha una lira”) per gli incontri amorosi con la fidanzata Luigia/Ferilli (da cui è ossessionato), ha un lavoro itinerante e modesto (rappresentante di detersivi) quando invece avrebbe sognato di diventare un professore di filosofia, vive nella ripetizione di coiti infiniti con infinite donne di tutte le età, annotandone ogni particolare. Insieme al suo status psicofisico. Benito, dice il suo parroco, è un bugiardo (e chi mente è anche un ladro), un imbroglione, un disonesto, un disgraziato. Probabilmente vittima di un Edipo irrisolto.

Per dargli corpo Ferreri ha scelto il volto di uno dei comici più disprezzati del cinema popolare anni ’90, Jerry Calà, e lo ha trasfigurato nella più perfetta maschera della disillusione, o, se vista dal basso, dello squallore drammatico della vita moderna. La figura di Benito, con il suo modo superficiale e svogliato di sprecare l’esistenza, bighellonando tra l’espletamento dei suoi bisogni primordiali (mangiare, guadagnare due soldi, andare a donne) sembra preconizzare l’esasperazione e il deserto di umanità tipici di un mondo post-capitalistico. Benito ha paura, Benito è stanco e fuma nervosamente. Nello scorrere del film trovano spazio diversi inserti onirici: Ferreri ci sta indicando il rapporto con il fantastico come possibilità di rifondazione dell’individuo?

Il film inizia e si chiude sul mare. In una costruzione ad anello “aperto” che suggerisce come possibile lettura quella del suicidio del protagonista, che nei primi fotogrammi vediamo entrare in mare con gli abiti addosso. Nel finale in realtà Benito sparisce soltanto nella penultima inquadratura, dopo aver nascosto il suo prezioso diario dietro ad un comò. Diario che verrà ritrovato da due operai chiamati a rinfrescare la sua stanza d’albergo nell’ultima scena.

Ferreri in una intervista diceva “Me ne sono andato da Milano perché non c’era il mare, è di lì che parte tutto. Ogni quarantacinque secondi esce qualcuno dal mare. Sì ogni quarantacinque secondi nasce qualcuno, quello è il liquido perfetto. Anche se adesso è un po’ contaminato. Ma forse lì c’è ancora qualche anguilla.” Ecco che il cerchio si chiude: Benito trova pace solo quando riaccolto nel ventre liquido del suo mare, la grande madre di tutti gli esseri viventi".