Distribuito in Italia a undici anni dalla sua uscita, Dogtooth di Yorgos Lanthimos esplora in modo glaciale e corrosivo l’isolamento che un padre e una madre riservano ai loro tre figli, prigionieri di un microcosmo asfissiante creato al solo scopo di proteggerli dagli orrori del mondo di fuori.

Prima che diventi una lacerante riflessione sull’assolutismo del potere, Dogtooth procede in modo sferzante e caustico, come un esperimento pedagogico basato sull’osservazione del comportamento umano. Il padre padrone del film, come Ivan Pavlov, celebre fisiologo russo capostipite del comportamentismo, racchiude i suoi figli-cani in una dimora-gabbia e crea per loro un mondo alternativo in cui i gatti sono animali letali – chiari i rimandi metaforici – la “fica” è un’abbagliante lampada e gli aeroplani possono cadere dal cielo e fungere da ricompensa per la prole addomesticata. Per i figli le regole da seguire sono molto semplici, basta infatti non oltrepassare il giardino di casa, attendere l’elargizione di quelli che uno dei discepoli di Pavlov chiamava “rinforzi positivi”, cioè premi assegnati alle cavie da laboratorio, ed evitare le punizioni derivanti dalle trasgressioni.

Proprio come in un esperimento scientifico, Lanthimos costruisce un incubo domestico in modo programmatico, azzerando il sentimento familiare, seguendo la logica della coazione a ripetere – di gesti, neologismi, vuoti cerimoniali – e basando il potenziale eversivo dell’affresco paranoico sulla semplice coordinata dentro-fuori: all’interno delle mura domestiche vige l’ordine e la disciplina, fuori imperversa il regno del disordine e della corruzione. Del tutto privi di giudizio critico sono i tre figli, due femmine e un maschio, a causa del metodo (dis)educativo che reinventa per loro una nuova lingua, modifica i significati delle cose e annulla il concetto di empatia sociale.

Pervasa da un afflato tragico che si diffonde in ogni opera del cineasta greco, la scena assume la connotazione di un teatro dell’orrore casalingo, irreggimentato da una pedagogia terrifica resa ancora più disturbante dal biancore della fotografia, patina lattiginosa indicativa di uno sbiancamento della coscienza e di un’abbagliante deformazione educativa che provoca, infine, l’esplosione di un irreversibile delirio paranoico.

Più che di opera politicamente impegnata, come anche nel precedente Kinetta, si tratta di un film politicamente orientato in cui l’azione, trasformata in rituale, mette in moto un meccanismo di critica a qualsiasi sistema repressivo che la società abbia mai concepito, sfruttando un impianto narrativo scarno ed essenziale, imperniato su una semplicità disadorna e percorso dal raggelante sguardo del regista che inchioda i protagonisti sotto il vetrino dello scienziato.

 

Dogtooth rappresenta la “fase 1” del nichilismo di Lanthimos, stretto ancora tra le maglie di una (mala)educazione filiale e non ancora aperto ai più complessi sistemi sociali che saranno sviscerati nella distopia sentimentale di The Lobster o nella grandangolare Inghilterra di fine ‘700 de La Favorita. Un cinema disperato e inflessibile, quello del regista greco, in costante oscillazione tra la visione lucida e la detonazione di una follia repressa e contagiosa.

 

Vincenzo Palermo