Basta spostare i due numeri 9 e 11, e quell’11 settembre che fa da sanguinoso spartiacque nella storia contemporanea si trasforma nel 9 novembre, il giorno in cui Donald Trump è diventato, contro qualsiasi previsione, il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Come in una cabala da brivido, questi numeri che si ripetono diventano il sinistro presagio di un nuovo, terribile, pericolosissimo attentato alla democrazia. È da qui che parte Fahrenheit 11/9, nuovo documentario di Michael Moore presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il sarcastico campione del pensiero liberal USA ha partecipato anche a un incontro ravvicinato con il pubblico.

La domanda che il documentarista si pone è semplice: come ha fatto un magnate continuamente deriso da stampa e media, razzista, misogino e con una moralità dubbia, famoso più per le comparsate tv che per le capacità intellettive, a ritrovarsi a capo della più potente nazione del mondo? Per cercare una risposta, che invece semplice non è, Moore va innanzitutto alla ricerca delle responsabilità. E non risparmia nessuno, nemmeno il sé stesso che qualche anno fa aveva accettato di non fare domande scomode al dispotico Trump durante lo show dell’ultra-conservatrice Roseanne Barr. Poca cosa rispetto alla miopia di osservatori nazionali e internazionali, che vedevano la salita al potere di Trump come un evento al limite dell’impossibile. La colpa più grande Moore la fa ricadere sui democratici, incapaci di mettere in campo delle vere politiche progressiste ma prontissimi ad appoggiare la più moderata Hillary Clinton rispetto al “socialista” Sanders, falsando il risultato delle primarie. Una sinistra che per non spaventare l’elettorato moderato cerca di essere più di destra della destra, dimenticandosi di dare risposte al paese. Ignorando, per esempio, i cittadini di Flint, città natale del regista, intossicati dal piombo dell’acqua a causa degli interessi di un governatore-imprenditore vicino al neo presidente. In un quadro tanto fosco non si salva neanche Barack Obama, descritto più come un grande sogno fallito che come un vero riformatore.

Accanto a quest’orrore c’è però anche un’America buona e sana, quella che si oppone allo strapotere delle lobby e all’incapacità dei politici. Come i ragazzi delle High School che dopo l’ennesima strage nelle scuole sono scesi in campo a migliaia per dire basta all’uso e alla diffusione indiscriminata delle armi. O i tanti rappresentanti di una politica che viene dal basso, proponendo che i diritti non siano per pochi ma per tutti. Un America che, ci dice Moore, è a maggioranza progressista (una delle grandi rivelazione del suo documentario) ma non per questo immune alla possibilità tutt’altro che remota di perdere la democrazia. Inquieta ma non sorprende il paragone che il regista, con sarcastico uso dei filmati di repertorio, costruisce tra Trump e Hitler. Ricordando a tutti noi che prima del nazionalsocialismo in Germania c’era una Repubblica democratica e culturalmente vivace come quella di Weimar, capace di trasformarsi nel giro di pochi anni nella più oscura dittatura della storia. Grazie a un montaggio sempre efficace e pur nelle forzature, nelle ridondanze, nelle semplificazioni farsesche che sono il segno distintivo e il limite del cinema di Moore, il grido d’allarme di Fahrenheit 11/9 arriva forte e chiaro, ricordando agli americani (e non solo a loro) che la democrazia non è qualcosa di assodato ma un obiettivo da raggiungere e un privilegio da difendere.

Ed è impossibile, e pericoloso, pensare che questo allerta non ci riguardi da vicino. Alla fine del suo incontro con il pubblico, dove non si è fatto problemi a definire Salvini “razzista” e “bigotto”, Moore ha elencato i meriti del nostro Paese, la nostra cultura dell’accoglienza e della cura dell’altro, capace di creare uno dei sistemi assistenziali e sanitari tra i migliori al mondo. “Siate ancora l'Italia” ha concluso “ma non quella che dicono i politici di "prima gli italiani", quella che ho conosciuto. Abbiamo bisogno di voi, il mondo ha bisogno di voi".