Non si può rimanere indifferenti davanti alla visione de La donna scimmia di Marco Ferreri, riproposto dalla Cineteca di Bologna tra i restaurati della 74esima edizione del Festival di Venezia. Ma perché un film simile, realizzato ormai più di cinquant’anni fa, mantiene una così grande forza abrasiva? La risposta sta nel truffatore incarnato dalla maschera sorniona di Ugo Tognazzi: riusciamo ancora a meravigliarci e rabbrividire davanti alle gesta di Antonio Focaccia perché riconosciamo in lui un nostro contemporaneo. L’intuizione che rende vincente la sua attività di impresario improvvisato è la stessa che anima molte produzioni dell’intrattenimento contemporaneo: trascinare la propria vita sotto i riflettori e darla in pasto ad un pubblico bulimico, sazio di realismo ma affamato di realtà.

Inizialmente, Focaccia imposta i suoi spettacoli secondo i codici del normale freak show: costruisce una cornice ben curata in cui mettere in scena una narrazione finzionale, trasformando sé stesso e la futura consorte in attori improvvisati. Gli affari procedono, ma 4000 lire al giorno sono troppo poche, e c’è bisogno di una nuova idea. Dopo innumerevoli notti insonni, il truffatore coglie, in netto anticipo sui tempi, una nuova dinamica dell’intrattenimento, basata sulla spettacolarizzazione del reale e non più su chimere costruite a tavolino. Diretta conseguenza di quest’intuizione è la scelta tragicomica di sposare il fenomeno da baraccone da lui sfruttato, e trasformare il proprio matrimonio in evento pubblico, anticipando le grandi nozze mediatiche a cui la televisione ci ha abituato. Focaccia, senza alcuna pietà, obbliga la donna scimmia a cantare in pubblico, esponendo a tutti il viso peloso che, per la parte precedente del film, compariva unicamente come oggetto di scena, sottratto agli sguardi della quotidianità da un burqa improvvisato.

Dopo il matrimonio, la notorietà della coppia esplode: i giornali riportano l’evento in prima pagina, il mondo dei varietà li accoglie e i due si trasferiscono in Francia, dove riescono finalmente a fare fortuna. Ferreri e Azcona introducono qui una falsa pista, che funge da base per il terribile colpo di scena finale: il matrimonio, da farsa mediatica, diventa legame vero e sentito, e Maria resta incinta. L’Antonio Focaccia che aveva tentato di vendere la futura moglie per qualche migliaio di lire si trasforma all’improvviso in un marito amorevole, pronto a sacrificare i guadagli arduamente conseguiti per garantire alla moglie una gestazione tranquilla. Alla morte di consorte e figlio, presente in due delle tre conclusioni dell’opera, il truffatore ritorna però ad applicare la sua spietata formula per il successo: il finale desiderato da Ferreri vede l’uomo esporre il cadavere di moglie e figlio nato morto davanti ad una folla di curiosi, riaffermando la fame del mercato per le tragedie personali e la determinazione dell’uomo a trasformare ogni aspetto del suo vissuto in capitale.                                                                                              

La potenza di questo film è dunque insita nella straordinaria acutezza con cui riesce a prevedere un modello di imprenditoria del sé centrale all’interno della mediosfera contemporanea: dietro ad ogni celebrity che costruisce la propria immagine sull’estetizzazione della propria (presunta) vita privata, c’è il broncio indecifrabile di Antonio Focaccia, e i ghigni sardonici di Ferreri e Azcona.