In occasione di Acqua e zucchero – documentario dedicato alla vita e alle opere di Carlo Di Palma – offriamo un approfondimento sul  film e sul lavoro di questo grande maestro della fotografia per il cinema.

Durante le riprese di Roma città aperta, Carlo Di Palma non aveva ancora compiuto vent’anni ma già assisteva l’operatore Ubaldo Arata. Gli era stato affidato il compito di recuperare la pellicola indispensabile per girare quello che sarebbe diventato il film fondativo del nuovo cinema italiano. Nella città appena liberata, il giovane Di Palma ottemperò all’incarico grazie all’aiuto di un soldato straniero. Molti anni dopo, nel bel mezzo di una cena a New York, Sven Nykvist, il geniale direttore della fotografia di Ingmar Bergman, riconobbe nel volto del commensale Di Palma, suo prestigioso omologo, il ragazzetto romano conosciuto in quei giorni di fermento.

È una piccola, incredibile storia che restituisce la grandezza di un mondo irripetibile, in cui Di Palma, partito dalla gavetta e giunto ai massimi livelli, ha rappresentato – dice bene Bernardo Bertolucci – la continuità. Ciò significa che ha lavorato pressoché con chiunque, sia sotto il magistero di maestri della luce quali Aldo Tonti e Gianni Di Venanzo sia al fianco di registi come Mario Monicelli, Ettore Scola, Pietro Germi e soprattutto Michelangelo Antonioni.  Non è un caso che sia stato radunato un tale esercito di affettuosi intervistati (compresi i compianti Scola, Carlo Lizzani, Francesco Rosi, Riz Ortolani, Michael Ballhaus: il progetto ha richiesto cinque anni di preparazione) per Acqua e zucchero: Carlo Di Palma, i colori della vita, pensato e voluto da Adriana Chiesa, vedova dell’artista, per la regia di Fariborz Kamkari.

Lo sguardo esterno del regista iraniano di origine curda, che ha ridotto a novanta minuti un materiale vicino alle quaranta ore, permette al prolifico e talvolta pigro filone del “documentario sul cinema italiano” di prendere aria, liberarsi dal coinvolgimento emotivo, dedicarsi anche a dissertazioni tecniche sul lavoro di un vero artigiano dell’immagine. Daniele Ciprì, che ha presentato il film in Cineteca, sostiene che “in un mondo di confusione di immagini”, Di Palma ha diretto l’immaginario dei suoi registi,  inventando “modi di raccontare” per riflettere su come “arrivare all’emozione”. Perciò, oltre al grottesco delle facce di Divorzio all’italiana, alla Ferrara spettrale de La lunga notte del ’43, all’amorosa indagine sul e del volto di Monica Vitti, Kamkari si concentra sui due più intensi sodalizi.

Raccolto il testimone del compianto Di Venanzo, ha accompagnato Antonioni nell’avventura del colore, passando dalla trasfigurazione del bianco e nero alla sottrazione cromatica di Deserto rosso, passando per l’astrattismo di Blow-up fino alle geometrie di Identificazione di una donna. Un allargamento del senso e dei limiti del reale, osserva il fan Ken Loach, che corrisponde all’emozione di una generazione cresciuta col monocromo e abituata a ragionare in termini di ombre e non di colori. Amicizia, umana e professionale, pari a quella con Woody Allen: al cinema dell’autore newyorkese, dominato dalla parola, Di Palma dona la grazia del movimento (il carrello circolare nel dialogo a cena di Hannah e le sue sorelle, la tensione di Mariti e mogli), l’intimismo del vespro in interni (la candela che apre Settembre), l’atto pratico all’idea geniale (Robin Williams fuori fuoco in Harry a pezzi).

Rimasto comunque sempre ancorato alle radici romane, il figlio della fioraia ha lasciato una lezione capitale nella storia del cinema, testimoniata dagli interventi degli illustri ammiratori. Ma anche il ricordo di un uomo garbato, elegante, simpatico, la cui vera preoccupazione, secondo Allen, era soltanto una: “dove andiamo a mangiare stasera?”.