In occasione delle celebrazioni felliniane, proseguiamo con la pubblicazione di alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema, contenuti nel fondo Calendoli (link).

Nella puntata precedente – questa carrellata antologica si può a buon diritto definire una serie – Nantas Salvalaggio mostrava un Fellini inquieto, aggirarsi per il set di Giulietta degli spiriti come in trans, alla ricerca dei suoi fantasmi tingendoli, per la prima volta, di colore. E proprio su Fellini maestro del colore si sofferma Giovanni Arpino, dedicandogli una delle sue famose lettere "scontrose" dalle pagine di Il Tempo, il 13 gennaio 1965, pochi giorni prima del quarantacinquesimo compleanno del regista.

Radicato nella cultura piemontese, Arpino è stato un grande giornalista, scrittore e poeta; di fama mentre ancora in vita (è scomparso nel 1987), oggi purtroppo tra i molti dimenticati, forse a causa della suo stile unico, non riconducibile alle correnti letterarie nazionali contemporanee. Questo saper guardare alle cose della società italiana con una scrittura di respiro europeo, gli ha permesso di raccontare storie molto diverse, trovando, di volta in volta, il registro linguistico più consono. Il talento di saper usare la tavolozza poetica con tanta disinvoltura lo accomuna a Fellini che in questo pezzo paragona all’artista Cennino Cennini, maestro di Giotto.

 

 

Fellini e i vitelloni cresciuti

 

Caro Federico Fellini,

lei certo accoglierà amichevolmente questa lettera anche se potrà sembrarle, all'apparenza, inattuale. Non mi mancano davvero le ragioni per associarmi anch'io al caloroso, lieto, concertato consenso che la circonda da ogni parte: nel cinema d'oggi, così scaltrito eppure così povero, tecnicamente ricchissimo ma sempre più miserando in fantasie e idee, lei è mago, è uomo vivo, appare a pelle scoperta, è l'ultima reincarnazione di quel Cennino Cennini da Colle Valdelsa, maestro di Giotto, che nella sua bottega inventava colori buoni, perfetti, sottili, e rimutò l'arte del dipingere e ridusse al moderno, ed ebbe l'arte più compiuta che avesse mai più nessuno.

L'accostamento non è casuale: come Cennino Cennini - che fu maestro a Giotto, ripeto - manipolò colori e li seppe descrivere agli allievi con verbi che inorgogliscono la lingua italiana (verbi come: sombrare, biancheggiare, caleffare, inseliciare, invernicare, sgrigiolare, strucare, avvellutare..., donati ai garzoni di bottega perché meglio sapessero prender coscienza dell'uso dei pastelli, di biacca, rosso o bianco d'uovo, verdeterra, zolfo, carboni, terra d'ocra, pignatte da mettere a fuoco), lei così ha manovrato e impastato volti, colori, costumi, fondali, prospettive, storie, atteggiamenti, sfarzo cardinalizio e guepières, persone e cose, marmi e vapori, rughe di vecchi e morbide spalle di signore, attori consumati e amici raccolti al caffè, ha inventato realtà superiori alle banali immagini della vita quotidiana, ha addomesticato esperienze proprie ed altrui, ha forzato le sorti di idee, di racconti, di abbozzi che in mani meno sicure sarebbero raggrinziti come foglie spiccate dal ramo.

In più ha aggiunto all'intingolo una goccia di abilità cagliostresca, ogni volta mischiando le carte del gioco, sommando mistero a mistero, dosando ingenuità, slancio, astuzia, savoir faire e magnetismo. Non c'è persona che, avendola conosciuta, non parli di lei come di uno stregone meraviglioso, un incantatore, capace di ipnotizzare addirittura i maghi di professione (come pare faccia mentre gira il suo ultimo film), capace di rendere tutto più umano, più semplice, e nello stesso tempo più occulto, più profondo, si tratti di una banale conversazione a tavola o di una discussione che tratta di lavoro, di anima, di arte. […]

 

Addolcisce la memoria

Caro Fellini, so anch'io che se fossimo seduti in un caffè a Roma riusciremmo a parlare più distesi, e con tutto l'agio di saltare di palo in frasca. Al caffè, soprattutto a Roma, si riesce ad essere assai bravi, assai fraterni, ci si scambia amorevolmente notizie sulla salute delle rispettive famiglie, su cosa si è mangiato l'altro ieri, sugli ultimi e più raffinati e astrusi accoppiamenti, su ciò che fanno e disfano ministri e prelati, sui diversi e giocosi soprusi commessi da produttori, editori, potenti d'ogni categoria. La lieve grazia che soffia al caffè romano m'ispirerebbe a sottolineare ancora una volta i suoi meriti, e cioè, come prima cosa, il dono gentile che lei offre ai suoi spettatori, e che consiste nell'addolcire la memoria degli uomini, nel contenere questa memoria tra sottili, morbide, mobili pareti d'ironia. Perché in un mondo come il nostro, privo di eroi, non solo di Achille e di Aiace ma persino di Ettore, che altro è possibile?

Se però al caffè, per caso, si cascasse a parlare di mestieri, allora azzarderei altre opinioni, nuove ipotesi. E le domanderei se ha mai provato il desiderio di uscire da Roma, di abbandonare insalutati tutti noi fratelli, e di puntare la sua macchina da presa in Congo, o in Cina, o in Bolivia, o nel Vietnam. […]

La figura classica dell'inviato speciale è ormai un manichino da museo, e gli unici reportages autentici sull'oggi li possono condurre solamente i poeti. In una nuova rivolta spagnola, non ci vorrebbe più a testimone un Hemingway, ormai, ma un Ingmar Bergman, forse, o un Buñuel, o persino un Tati. Su ciò che è sangue e mistero in Asia, in Messico, in Africa, sulle teste tagliate, sui cuori divorati, sulle rivoluzioni che prorompono dall'analfabetismo, sulle religioni che si straziano per non perdere l'avvenire, bisognerebbe esercitare una ricerca non aneddotica, ma poetica, e ci vorrebbe un uomo come lei, Fellini, che ha sempre saputo dilatare la portata delle briciole della realtà toccatale in sorte, e ha sempre saputo renderli significanti agli uomini. […]

Però... Però c'è tutta la nostra morbidezza italiana in agguato, ci sono gli amici prodighi di lusinghe e di feste in trattoria, ci sono gli spettatori fedeli, ci sono i colleghi di mestiere che con la loro aridità e incompetenza esaltano le sue stesse doti, ci sono i discorsi al caffè (come questo, lo so, l'ho detto prima io...), e alla lunga il nostro dolce strazio collettivo, il nostro "vogliamoci bene" ma sputandoci in faccia, diventano anch'essi una specie di nirvana, un metro per giudicare il mondo, una presunzione d'essere.

L'Italia, oltreché madre di poeti, di eroi e navigatori, è sempre stata un Paese di supposti geni che raggiunta l'età della ragione diventano droghieri, tabaccai, assicuratori, per amore della mamma, dei figli, della vita quieta, della camicia pulita, a causa della ragion di stato, della guerra, del lieve difetto fisico, della scalogna. Chi ha genio davvero, deve arrampicarsi sui vetri per ritrovarsi vivo ogni mattina, per seppellire alla sera ciò che è successo e ricominciare, ricominciare... […].

 

Magia sprecata

Lei, in ogni metro dei suoi film, con pazienza, con felicità d'espressione, con narcisismo non taciuto, è andato alla ricerca di se stesso sparito, svanito negli anni, e bisognoso d'essere risognato, rimesso insieme pezzo per pezzo. Lei ci ha dato, in forma di spettacolo e grazie a Dio rispettando le regole dello spettacolo, l'esposizione dell'immaturità da cui siamo contagiati. Ma è proprio a questo punto che devo scoccare la freccia: cioè mirando alla distanza che corre tra lei e il suo lavoro. […] E allora: perché lei non è contento? Forse comincia a sospettare d'ingannarsi da solo con queste sue storie cinematografiche lisciate e rilisciate? Forse comincia ad annoiarsi dei suoi giochi entro il gioco?

[…] Uscisse di sé, si buttasse una macchina da presa sulle spalle, andasse incontro al mondo, forse noi avremmo, più tardi, un Fellini diverso, felice, liberato, un fratello finalmente maturo. […]

La sua magia, caro Fellini, è sprecata nel piccolo teatro di marionette che le offriamo noi, Roma, Italia, Europa. I vitelloni, cresciuti, le ingombrano i vicoli della fantasia, le impacciano le serate: come quei compagni di scuola con cui non si sa più cosa dire, una volta che si è diventati grandi.

Se lei vorrà continuare a stupirci col suo flauto magico, se lei vuole mettere alla prova se stesso e venire a contatto con la propria ombra segreta, mi creda: la verità che è in noi bisogna che sappia verificarla accanto a quella che è fuori di noi, lontano.