Riavvolgendo il nastro dal momento in cui Frances Ha scrive il suo nome sulla cassetta della posta dell’appartamento in cui andrà a vivere, instabile come sempre ma con qualche timore in meno, eccoci a Sacramento: Greta Gerwig fa un passo indietro, da New York City si ritorna dove tutto ebbe inizio, o meglio, al momento spartiacque di tutta la sua vita e lo fa affidandosi al corpo e all’anima di Saoirse Ronan. Christine “Lady Bird” McPherson è Frances dieci anni prima della turbolenta convivenza con Sophie, dei tentativi con la danza e del perenne senso di inadeguatezza che si trova ad affrontare un animo “raro” come il suo, alle prese con gli spasmi della vita newyorkese. E c’è un momento, seppur breve, in Frances Ha, in cui la nostra paladina delle imperfezioni è nuovamente a Sacramento e noi con lei: Noah Baumbach la segue con attenzione, riuscendo a cogliere le sfumature di un moto interiore in apparenza identico a sé stesso ma che, in realtà, anche nei momenti di maggiore concitazione emotiva conserva un difficile nucleo di contraddizioni.

Frances Ha vive la spensieratezza di un equilibrio prossimo al declino con il trasferimento di Sophie, crede di aver trovato l’idillio nell’appartamento da novecentocinquanta dollari al mese ma poi viene licenziata. Non c’è tregua per i dolori della giovane Frances, non c’è luna di miele che tenga e lo stesso accade nella sua città natale, qualche anno prima, alla sua versione più minuta e più rosa.

Lady Bird vive un dramma non dissimile, sebbene le cause siano differenti. È un’adolescente all’ultimo anno di liceo, ci sono i primi amori e i conflitti con le figure genitoriali, specialmente con la madre dove un tal genere di introspezione, restando nell’ambito del cinema coevo, la si può trovare soltanto in Xavier Dolan, se pensiamo a Mommy o al meno recente J’ai tué ma mère. Con un colpo d’occhio totalizzante, Dolan e Gerwig riescono a restituire l’estremo realismo, crudezza e visceralità del rapporto madre-figlio, con uno scarto, tuttavia, evidente da parte di Dolan nella costruzione delle dinamiche interiori dei personaggi. Nonostante ciò, non si può non provare empatia nei confronti di Frances Ha e Lady Bird, creature verosimili e poco artefatte, attraverso cui Baumbach da un lato e Gerwig dall’altro colgono l’intimità del cinema indipendente americano: il bisogno di raccontare sé stessi, storie di inedita normalità alla Paterson o Lucky (esordio alla regia di John Carrol Lynch, insinuatosi in questo genere) dove la narrazione filmica ha piena ragion d’essere al di là di una tradizionale costruzione drammaturgica e la dignità del personaggio\uomo con tutti i suoi malumori e incoerenze presiede alla trama, alla “storia” in quanto tale.

Multiforme e oltremodo colta, la scelta musicale di Frances Ha è un chiaro omaggio alla Nouvelle Vague e a un cinema francese cui Baumbach guarda moltissimo. Ci sono i toni a metà tra il melodramma più cupo e la spregiudicatezza alla Jules e Jim di George Delerue che “firma” parte dell’OST, storico compositore di Godard e Truffaut, e c’è un momento in cui il Rosso Sangue di Leos Carax si tinge di bianco e nero e Denis Lavant rivive nella Gerwig tra le strade di NYC, a suon di Modern Love di David Bowie. Momenti epifanici, a loro strambissimo modo. E se da un lato c’è Bowie a far da colonna sonora, dall’altro, meno prorompente, ascoltiamo Hand in My Pocket di Alanis Morissette, malinconica e struggente durante uno dei momenti decisivi della crescita di Lady Bird.

D’altro canto, chi se non François Truffaut prima della tradizione del cinema indie operava in tal senso? Emblematico è il caso del ciclo di film dedicati ad Antoine Doinel, cresciuto in sincronia con l’attore da cui viene interpretato. Si può dire che opere come Baci rubati o Non sdrammatizziamo, è solo questione di corna a livello di accadimenti estrinsechi rispetto alla natura dei protagonisti e il loro bisogno di confrontarsi con il mondo siano abbastanza ordinari, per così dire: attraverso Doinel, Truffaut racconta qualcosa di se stesso tanto quanto la Gerwig o Baumbach, con perspicacia e acutezza, spinti dalla volontà di vedere gli uomini in trasparenza, così come sono nella realtà.