Richiamando l’opera del 1996 di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, e la retrospettiva Non Non Non del 2012 all’Hangar Bicocca (che prende il nome da quel lavoro), si potrebbe iniziare sostenendo che Il diario di Angela - Noi due cineasti non è un documentario. Compagni di vita e di arte, si sono conosciuti all’inizio degli anni settanta e solo la morte li ha materialmente separati. Il diario di Angela è costruito attraverso un insieme di filmati amatoriali che Yervant e Angela hanno conservato per lungo tempo, ed ora - dopo la recente scomparsa di Angela - viene proposto come film. Un’intensa memoria che torna ad essere viva e vuole essere raccontata attraverso lo scorrere dei viaggi di Yervant e Angela alla ricerca della violenza del novecento. Dapprima in Turchia, successivamente in Armenia - qui vennero perseguitati e insultati con l’appellativo di “cenciosi cattolici” e dove, in seguito, hanno scavato le tombe per quei mucchi di corpi martoriati dalla guerra - fino a Mosca e Sarajevo.

Attraverso la voce di Gianikian che legge, dai diari di Angela, alcuni commenti, impressioni e descrizioni, ci si addentra, col loro consenso, nella riservatezza di momenti quotidiani ed eccezionali e di sorprendenti amicizie: come quella con Walter Chiari. Così Angela e Yervant rendono lo spettatore partecipe sia di intimi momenti di calma e quiete tra le coltivazioni, gli gnocchi fatti in casa e il mosto dei contadini, sia di ciò che hanno visto fuori da quella pace.

C’è molto delle loro opere in questi essenziali minuti di film, ma si vorrebbe vedere di più. Angela che disegna, o che si fa riprendere mentre gioca col compagno, o che è visibilmente affranta davanti all’orrore della trincerata Sarajevo, ma in cui riesce a scorgere, con sguardo fanciullesco, un albero in fiore: qualcosa di bello contrapposto alla brutalità della natura umana. Guardando il ponte Angela pensa e dice che trema al pensiero che qualcuno, nascosto nel verde, le possa sparare, come è capitato a tanti altri.

Il loro lavoro di rielaborazione di fotogrammi viene mostrato nelle sue diverse fasi. Dal fortunato recupero di “pizze” sulla Prima guerra mondiale - bobine dimenticate e fuori legge che loro poi mimetizzano per importarle in Italia - fino alla realizzazione dei loro lavori. La loro interminabile ricerca sulle guerre, sul colonialismo, ma sopratutto sulla violenza viene quindi mostrata dal lato più intimo, riassumendo anni di riprese, avvalendosi dei disegni e dei diari di Angela e della camera e della voce di Yervant.

La “leggenda dei due cineasti certosini, monacali, che inventano una ‘camera analitica’ per impossessarsi di immagini deperibili” (così ne ha scritto Alberto Pezzotta) continua così a fare storia.