La stratificazione strutturale che compone Il buco, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia (in prima visione su Netflix), ottempera a molti compiti, uno dei quali è disincarnare i parametri con cui si sta al mondo. Goreng è un volontario di una sperimentazione detentiva. Il luogo in cui sceglie di auto-confinarsi è una prigione verticale suddivisa in piani; ogni piano ha una cavità al centro e ospita due persone. Al vertice di questo edificio domina il punto zero, ove l'amministrazione quotidianamente prepara un tavola imbandita che cala, livello per livello, attraverso una piattaforma. Il cibo è abbondante e potrebbe sfamare tutti ma, naturalmente, i prigionieri dei livelli più alti non impiegano molto a finire tutto, costringendo i meno fortunati a lottare per i resti.

Galder Gaztelu-Urrutia armonizza la sceneggiatura di David Desola e Pedro Rivero con grande intelligenza dando vita a una messa in scena soffocante, sostenuta anche dalla fotografia plumbea e asfittica di Jon D. Domínguez e la musica inquietante e dirompente di Aránzazu Calleja. Questo primo lungometraggio di Gaztelu-Urrutia poggia la sua tensione narrativa su un piccolo palcoscenico che appartiene a un mondo distopico, una realtà sociale classista che costringe i suoi abitanti a vivere in compartimenti stagni. Quel che viene apocalitticamente definito come un centro di autogestione verticale in realtà è un tugurio manipolatorio che condanna chi ci abita a una situazione di isolamento e prevaricazioni. Coloro che si adattano alla realtà, vittime di un parto che li costringe a obbedire a una piramide ingiusta e ciclica, rimangono vivi. Coloro che non si limitano a subire il confino passivamente sono condannati a essere portatori di una conoscenza pericolosa: chi si mette in condizione di sfidare il classismo e di promuovere il pensiero critico discute i parametri con cui si sta al mondo.

Se è vero che servire è una suprema arte, è anche vero che essere serviti è un atto che si giudica in base ai rapporti di potere. Servire e asservimento appartengono alla stessa radice etimologica, pur esprimendo due condizioni opposte, due differenti dati di privazione. Questa relazione si può cogliere all'interno del carcere brutalista che, in senso quasi dantesco, è diviso per livelli, per cerchi; quel che sovrasta il protagonista è un imbuto disumano e putrescente, una catena ferina unita dalla macchinazione di un ente supremo, definito l'amministrazione, che quotidianamente distribuisce i dividendi a ogni piano, e a chi lo abita. Quel che l'amministrazione serve, un pasto luculliano, sfarzoso, eccessivo, viene poi messo in condivisione con i prigionieri del livello 1 che, a loro volta, diventano i servitori del piano inferiore. Come i rapporti di potere tra i livelli cambiano con la discesa della piattaforma, così l'arbitrarietà personale diventa il riflesso spersonalizzante della coercizione morale che abita le menti dei personaggi a seconda del livello in cui si trovano.

Goreng è un idealista che si serve della propria assiomatica dignità per smussare la geometria della prigione verticale, e il regista si serve di questa allegoria sociopolitica per ricreare quel che è a tutti gli effetti un esperimento sociale molto interessante. Il buco non ci dice nulla di nuovo, è molto più vicino all'intrattenimento che alla filosofia, ma ciò che fa e ciò che dice è efficace, e non fa che perpetuare ciò che Bong Joon-ho – e a suo modo anche John Carpenter- ha chiarito all'interno delle sua filmografia, distillando con estrema precisione l'eterna disuguaglianza delle classi sociali ed evidenziando l'avidità paradigmatica delle élite al potere e l'esaltazione spropositata della scala sociale costruita con e sui corpi degli ultimi, che soffrono a pochi metri di distanza.

Il buco, determinato da tre atti marcati e precisi - la sottomissione acritica, la coscienza sociale e la missione para-messianica per sabotare la prigione, sembra trarre forza e ispirazione da CubeIl cubo e Snowpiercer, dal punto di vista strutturale; ma se in quei casi i prigionieri si trovano in una condizione di reclusione e asperità e tentano disperatamente di divincolarsene, gli abitanti della fossa verticale sono per lo più passivi, e la divisione geometrica e classista della prigione, più che un cubo inespugnabile di cemento, ricorda molto le architetture distopiche di Metropolis di Fritz Lang. Gaztelu-Urrutia guarda al cinema di genere, trae la migliore ispirazione possibile dalle già citate opere del passato, e il prodotto finale è un'antologia di sapori violenti, in cui la politica diventa sangue e l'azione è allucinatoria, una summa di suggestioni combinate con grande puntualità.