In Italia e in Europa sta prendendo sempre più piede un certo tipo di cinema che potremmo definire “poliziesco sociale”, e che affonda le proprie radici fin dagli anni Novanta, quando Kassovitz realizzò quel film rivoluzionario e seminale che è L’odio: un cinema figlio dei tempi bui che stiamo vivendo, in particolare nelle grandi città e nelle periferie, e che racconta il disagio sociale, il malessere, le tensioni fra italiani e immigrati, la micro-criminalità, gli scontri con la polizia.

Si tratta di polveriere sempre pronte a esplodere, e i modi di raccontarle sono molteplici: c’è la narrazione più roboante e spettacolare dell’italiano ACAB, del danese Enforcement (Shorta nel titolo originale) e della serie-tv spagnola Antidisturbios, ma anche quella più intimista e ispirata chiaramente a Kassovitz del francese I miserabili e di un altro film italiano troppo poco conosciuto, La grande rabbia. Il giovane regista Hleb Papou, nato in Bielorussia e cresciuto in Italia, prosegue su questa strada con una sorprendente opera prima, Il legionario (2021), sviluppato a partire da un omonimo cortometraggio che l’autore aveva diretto nel 2017: trattasi di un film brutale, scomodo, coraggioso e controcorrente, un’opera che ha il coraggio di osare e che sta proseguendo con meritato successo il suo percorso festivaliero, da Locarno a Visioni Italiane, fino alla Festa del Cinema di Roma.

Co-sceneggiato dallo stesso regista, è ambientato nell’agitatissima periferia romana dei nostri giorni, e focalizza la vicenda su Daniel (Germano Gentile): italiano di seconda generazione, cioè figlio di immigrati, è un ragazzo di colore che lavora nel reparto celere della polizia, quello deputato ai lavori più sporchi e violenti come disperdere le sommosse e sgomberare i palazzi. Daniel vive con sofferenza la sua particolarissima situazione: da una parte, è saldamente legato al suo reparto, nel quale vige un forte sentimento cameratesco, e vede la sua squadra come una famiglia, nonostante porti su di sé lo status di essere l’unico “celerino” nero; dall’altra, il poliziotto ha però anche una vera famiglia, che cerca di tenere nascosta ai colleghi, composta dalla madre e dal fratello Patrick (Maurizio Bousso), i quali vivono in un palazzo occupato da 150 famiglie e sempre sull’orlo dello sgombero. Patrick è uno degli occupanti più attivi nel reclamare i diritti, e quando il reparto celere di Daniel riceve l’ordine di sgomberare i residenti, giunge per lui il momento di affrontare una dura scelta.

I modelli a cui Papou si ispira sono presumibilmente ACAB di Stefano Sollima e lo scioccante Diaz di Daniele Vicari, ma Il legionario ha qualcosa anche de I miserabili di Ladj Ly, in particolare per la rappresentazione delle tensioni razziali. Rispetto ai due suddetti film italiani, l’opera prima del giovane regista può contare su un budget più ridotto (anche se ci sono alle spalle produzioni serie come Fandango e Rai Cinema, dunque non è un indipendente qualsiasi), e in questi casi voler girare sequenze d’azione può comportare il rischio di celebrare le nozze coi fichi secchi: ma Papou evita questa trappola e sa ottimizzare perfettamente i mezzi che ha disposizione attraverso particolari accorgimenti registici.

Per esempio, se Sollima in ACAB poteva permettersi grandi scene di massa – pensiamo agli incidenti nello stadio – e quindi campi lunghi sugli scontri, Papou si focalizza su campi medi e primi piani, nascondendo così il carattere low-budget del film e dando vita a scene d’azione credibili e realizzate come si deve, grazie anche a un montaggio serrato. Il legionario è un film che bilancia sapientemente lo spettacolo con dialoghi pregnanti e personaggi realistici (sono persone, più che personaggi), ma l’azione e la violenza non sono veicoli d’intrattenimento, bensì componenti crude e volutamente fastidiose per lo spettatore, perché mettono in scena qualcosa di tremendamente vero, una realtà che tutti noi abbiamo avuto modo di vedere – quanto meno, nei telegiornali.

La genialità di Hleb Papou sta innanzitutto nello script, poi trasposto da una regia incredibilmente lucida e robusta, per essere un’opera prima: una sceneggiatura che accentua i contrasti fra polizia e occupanti (in prevalenza immigrati) inserendo un protagonista borderline, il quale vive sulla sua pelle la tensione razziale e tutte le contraddizioni della società contemporanea. Daniel – un bravissimo Germano Gentile, già visto nel noir Il contagio, perfetto col suo volto duro che cela però una persona tormentata – è una contraddizione vivente: un celerino di colore, un figlio di immigrati, appartenente a un corpo di polizia notoriamente di destra (non serve il cinema per spiegare che la maggior parte dei celerini siano fascistoidi), e che prima ancora dello sgombero si trova a vivere una situazione delicatissima. Che cosa lo abbia spinto a tradire la sua famiglia e i suoi connazionali per combattere al fianco dei suoi nemici, non è spiegato.

Ciò che è chiarissimo è la sofferenza che Daniel porta sulla pelle e nell’anima: una situazione esplosiva che monta sempre più nel corso del film (la durata è ridotta, sono 80 minuti circa, ma dosata coi tempi giusti) e che confluisce – anche nel ritmo e nel montaggio – negli tafferugli all’interno del palazzo, prima di un finale volutamente aperto e strozzato che sembra richiamare anch’esso I miserabili. Il celerino, nel corso della vicenda, corre sempre il rischio di essere rinnegato tanto dai colleghi poliziotti – che nonostante il cameratismo non riescono a vederlo del tutto uguale agli altri, chiamandolo con amara ironia “Ciobar” – quanto dal fratello Patrick (un altrettanto convincente Maurizio Bousso, visto in Tolo Tolo) e dalla madre, che non riescono a comprenderne la scelta e si sentono traditi.

La vita contrastante del protagonista dà modo a Papou di rappresentare i due nuclei fondamentali della storia, cioè il reparto celere e le famiglie (per lo più formate da stranieri) che vivono nello stabile. La squadra anti-sommossa del reparto mobile è descritta in modo simile ad ACAB, con una visione il più vicina possibile alla realtà, anche se alla fotografia satura del film di Sollima si sostituisce un’immagine più neutra, naturalistica, quasi documentaristica, con molta camera a mano.

Il legionario si apre in media res, cioè nel cuore degli eventi, senza perdersi in inutili preamboli: con una musica che sale potente e rabbiosa, mescolata al suono assordante delle sirene, la regia ci immerge nella violenza e nel fumo degli scontri, mentre da una parte piovono sassi e dall’altra manganellate; un incipit che si rivelerà speculare alla conclusione, con l’irruzione nel palazzo e i violenti incidenti tra polizia e occupanti, sempre realizzati con un mirabile utilizzo delle inquadrature e del montaggio, mentre la musica cede il posto ai rumori dei tafferugli.

La preparazione delle cariche e l’assetto da guerra dei celerini sono ricostruiti minuziosamente (il che rivela uno studio approfondito della realtà da parte del regista), così come il rapporto fraterno e cameratesco che lega i poliziotti del reparto (pensiamo al personaggio di Aquila – Marco Falaguasta – il comandante con cui Daniel ha un rapporto quasi padre-figlio). Papou ci fa respirare questo spirito fortemente corporativo (e l’odore è sgradevole, puzza di estrema destra) durante i viaggi all’interno dei blindati, nelle esercitazioni con le cruente lotte corpo a corpo, negli incidenti con gli abusivi o coi manifestanti; uno spirito di guerra che vediamo anche nei tatuaggi di Aquila e nel disegno raffigurante un celerino accanto al Colosseo in fiamme – il riferimento all’antica Roma (che giustifica il titolo) è una parte integrante nell’ideologia dei celerini, che si identificano come soldati. Quello del reparto celere è un lavoro infame e sporco, ma Papou non cade nel facile manicheismo dell’opposizione fra buoni e cattivi, mostrandoci una fotografia impietosa della realtà.

Il legionario non è tanto un film sugli abusi della polizia (come lo era Diaz, per intenderci), anche se di abusi ne vediamo; piuttosto è incentrato sulla vita dei celerini e degli abusivi, così opposte ma accomunate da un forte spirito fraterno, e sulla situazione paradossale ma verosimile che il protagonista si trova a vivere. Daniel vive in mezzo a manganelli, caschi, scudi e lacrimogeni (la ricostruzione è dettagliata e minuziosa), la sua è una vita sporcata da una continua violenza e scatti di rabbia, il rapporto con la compagna incinta è sempre sull’orlo del baratro, ma non riesce a staccarsi neppure dalla sua vera famiglia – tanto che a un certo punto farà l’informatore ai suoi connazionali, evitando provvisoriamente lo sfratto, e nel concitatissimo finale cercherà una difficile mediazione.

La regia presta un’attenzione certosina anche alla ricostruzione del palazzo occupato e delle famiglie che vivono in una situazione di indigenza, rivelando ancora uno studio accurato della realtà: Papou ci mostra spaccati di vita quotidiana, vediamo le riunioni dai toni accesi (chi non rispetta le regole, viene allontanato dall’abitazione), le discussioni fra gli inquilini di varie nazionalità, il ruolo da leader che riveste Patrick nel reclamare i loro diritti, la difficile mediazione con l’impiegato del Comune. Non mancano specifici richiami alla realtà – il Monsignore che riattacca l’energia elettrica al palazzo, la manifestazione in cui campeggia lo slogan “Prima gli italiani” – i quali contribuiscono a rendere ancora più veritiero Il legionario, un nerissimo ritratto di un’Italia sempre più in preda al caos, alla violenza e alle contraddizioni sociali.