Nella lunga storia di successo della Hammer Film Productions, Il fantasma dell’opera (1962, Terence Fisher) rappresenta forse il primo vero passo falso, almeno in termini commerciali. Distribuito in America dalla Universal, forte di un budget più cospicuo rispetto alla media dello studio inglese ed abbastanza “sulle mappe” da far pensare per qualche tempo a una possibile partecipazione come protagonista di Cary Grant (loro fan di lungo corso) Il fantasma fece fiasco al botteghino, e ancora oggi è ricordato soprattutto “per singole sequenze da cui emerge il talento registico di Fisher” (Mereghetti). Al di là del disaccordo per la freddezza con cui è stato storicamente trattato, questo film riuscito a metà, piatto nella scrittura ma spesso folgorante nella messa in scena, appare oggi come un prezioso summa del percorso della Hammer fino a quel momento, fra le chiavi migliori per dischiudere i segreti del suo affascinante mondo.

La tentazione di farne un modello quasi teorico, il “manuale dell’Hammer Film”, deriva come in molti casi analoghi dalla sua natura di spettacolo-sullo-spettacolo, con le consuete atmosfere d’orrore e mistero applicate al contesto dell’allestimento di un’opera lirica funestato dalla presenza invisibile del mostro. Difficile non provare un brivido di straniamento meta-filmico di fronte alla prima (e migliore) sequenza, con le tipiche comparse Hammer in costume paesano (si porta in scena una Giovanna d’Arco) che mormorando sui fatti misteriosi di quei giorni si scostano per far passare il direttore d’orchestra elegantemente vestito; ne seguiamo poi l’arrampicata dalla pancia del teatro al suo posto d’onore davanti ai musicisti, l’inchino alla platea, l’inizio dell’opera, fino al primo memorabile omicidio che la interromperà bruscamente.

Tale enfasi all’interno di un film Hammer sulla messa in scena non può passare inosservata: come poche volte nella storia dell’horror infatti essa pone in luce l’identità stessa del collettivo, il marchio di fabbrica, l’ “Hammer touch”. Se l’asse camera work-scenografia-fotografia-make up è da sempre l’abc del genere, l’equilibrio artigianale perfezionato negli anni dalla casa inglese non ha pari nel trattare questi elementi come raggi perfettamente equidistanti dal centro narrativo dei propri film. Il valore di questa raggiunta armonia è probabilmente superiore a quello pur notevole di alcune singole opere, e per quanto il sensazionalismo di certi effetti splatter la faccia spesso additare come maestra di efferatezze, il sangue e i mostri non monopolizzano mai l’attenzione (clamoroso ad esempio quanto poco siano in scena i personaggi di Christopher Lee in Dracula il vampiro o La Mummia), così come non lo fanno la regia esperta di Fisher, i costumi sontuosi, gli ambienti sfarzosamente dettagliati. Se la cifra dell’horror (esemplificata dalle linee affilate dell’Espressionismo) è invariabilmente legata allo sbilanciamento, all’estremo, alla disarmonia, i film Hammer – concentrati come sono sulla presentificazione di un’atmosfera period calda, tattile, abitabile – rappresentano quasi un controsenso, l’horror riposante e dalle linee morbide in cui perdersi come in un libro di Conan Doyle letto davanti al caminetto.

Tematizzando e smascherando l’illusionismo di questi straordinari artigiani, gli squallidi dietro le quinte di Il fantasma dell’opera (popolati da megere e farabutti degli slum londinesi ben più veri e spaventosi dei romantici personaggi interpretati da Lee, Cushing & Co) potrebbero avere avuto qualche colpa nell’insuccesso del film, ma è proprio questo trattamento in ogni senso più estremo ed esibito della messa in scena a fornire oggi spunti utili per leggere ciò che (più placidamente) accade anche nei film Fedeli alla Linea: pensiamo ancora alla climax della prima sequenza, dove la “ferocia d’artista” del Fantasma erompe a piena potenza lacerando come una tela di Fontana le belle scenografie teatrali per farne emergere il cadavere di un impiccato. Bellissima rappresentazione (tramite la Rappresentazione sulla scena) del tipico procedimento Hammer per cui l’orrore, il mostro, il sangue si profilano tanto più efficacemente nel contrasto con la bellezza statica e convenzionale di ogni altro elemento del profilmico. Il Brutto non abita un ambiente di per sé straniante, né sconvolge una tranquilla normalità, ma scaturisce direttamente dal Bello.

A dimostrazione di quanto valga anche il contrario ci sono poi quelle lacrime strazianti versate dal mostro-compositore nel finale, quando la sua opera va in scena fra gli applausi strappandolo poco prima della morte a un destino di oblio e incomprensione. Al 1962, è almeno il terzo “Hammer Monster” che vediamo fragile e umano abbandonarsi al pianto: prima c’era stato il sacerdote egizio di Lee in La Mummia (interpretazione capitale attraverso due fessure, antenata nella sua goffaggine del Johnny Depp di Edward mani di forbice) e gli occhi del licantropo Oliver Reed pieni di lacrime al suono di campane a morto sui titoli di testa di quello che è forse il migliore di tutti i film Hammer, L’implacabile condanna (1961). Mostri compassionevoli, spesso perfino amabili come nella tradizione aperta dalla Universal (ma c’è mai stato un film in cui non abbiamo, almeno un po’, tifato per loro?) la cui umanità sgorga, zampilla, rompe gli argini di un makeup raccapricciante, costringendoci ad esitare prima di sferrar loro il colpo mortale.

Il Brutto, reciprocamente, cela in sé il Bello e tramite esso si esprime, come quando il Fantasma sogna di “vivere per sempre” attraverso la voce e l’anima pura di Christine, che in uno straordinario momento di sublimazione sale al rogo nei panni teatrali di Santa Giovanna d’Arco come tanti mostri in tanti villaggi prima di lei. Così la forza perturbante trova il suo dolce contrappasso, terrore e pulsione erotica si scaricano nel mare placido della comprensione. Quando cala il sipario l’equilibrio è ristabilito, e non vediamo l’ora che lo spettacolo ricominci.