Varcato l’uscio del nostro triste mondo, esiste un luogo chiamato Catland. È popolato da felini paffuti, dotati di cilindro e monocolo, intenti a fumare grossi sigari e bere alcolici mentre siedono al tavolo da gioco. Ridono sguaiatamente, hanno musi deformati da smorfie beffarde e allo stesso tempo tragicamente umane. Giocano a golf, a cricket, leggono il giornale, suonano tube e grancasse: sono i gattini di Louis Wain. E vale la pena chiedersi chi fosse Louis Wain, figura mitologica della storia inglese, tanto tormentata e dimenticata quanto imprevedibilmente influente.

“Gli Inglesi dell’età vittoriana non amavano i gatti. Li consideravano al massimo come acchiappa-topi. Ritraendo gatti dai tratti adorabili, raggianti, umani, Wain ha contribuito a cambiare lo sguardo di un’intera società.” Le parole di David Tibet, noto ai più come menestrello del collettivo musicale Current 93, sono ancora oggi le più adatte a spiegarci l’impatto culturale (insospettabile) di un artista conosciuto per cartoline d’auguri, inserti kitsch del London News e merchandise in ceramica dal design vagamente cubista. A tema felino, s’intende.

Ma oltre le parole arriva sul piccolo schermo Il visionario mondo di Louis Wain (storpiatura italiana accattivante, ma alquanto lontana dal senso del titolo originale), il nuovo film targato Amazon Studios. The Electrical Life of Louis Wain — dove “electrical” resta un termine chiave — è a tutti gli effetti un biopic che mette al centro della narrazione la carica attoriale di Benedict Cumberbacht nel tentativo di esaltare gli aspetti “freak” del personaggio. L’incapacità di fare i conti con l’Inghilterra industrializzata e contabile e il bisogno di rifugiarsi in un universo parallelo sono i punti cardine del film di Will Sharpe, che cerca di allontanarsi dal suo stile spiccatamente televisivo per raccontare la storia di un autentico outsider. Un “disadattato” inserito in un percorso narrativo canonico con pochi e (fin troppo) misurati picchi di alienazione surreale.

Nella Londra in mutamento sul finire del diciannovesimo secolo, Louis Wain sbarca il lunario vendendo illustrazioni al London News. Nell’ingranaggio cinico e freddo dei conti da pagare (Wain è l’unico “uomo di casa”, con a carico cinque sorelle e la madre), Louis trova in Emily Richardson, umile governante, l’amore della sua vita. Circostanze sempre più impietose finiscono per estraniarlo dalle convenzioni e dagli obblighi sociali, portandolo a instaurare una sintonia peculiare con i gatti, che venera e dei quali si circonda, finendo per ritrarli maniacalmente in tutti i suoi lavori. La vita di Wain prosegue in una spirale depressiva di inaspettato successo popolare, povertà dovuta a una vera e propria repulsione per gli affari, responsabilità familiari sempre maggiori, paranoie e allucinazioni che lo condurranno a esagerare tanto il suo rapporto col reale quanto il suo tratto pittorico.

Il Louis Wain di Cumberbatch è un signore allampanato e stralunato che unisce il profilo del genio emancipato e ossessivo di The Imitation Game e Sherlock — sì, tocca giocoforza citarlo — a certe declinazioni burtoniane (difficile non pensare a Big Eyes, più che a Ed Wood). E se la forza del film di Sharpe risiede proprio nell’estremizzazione degli stessi caratteri che rischiano di imprigionare Cumberbacht in ridondanti déjà-vu, di certo contribuisce a coniugare in modo credibile contesto storico e mise-en-scène. Con l’ausilio della voce narrante di Olivia Colman e di un cast decisamente azzeccato (Claire Foy, Andrea Riseborough, Toby Jones, ma anche Taika Waititi e Nick Cave in due preziosi camei), Sharpe inscrive la parabola di Louis Wain in un tempo e uno spazio ben delineati, alternando i colori grigi della metropoli agli acquarelli dell’astrazione. Una narrazione tradizionale e convincente, si diceva, che non c’è dubbio potesse osare di più proprio in virtù della storia prescelta.

Sì, perché oltre le cronache di Louis Wain, quelle che lo vogliono incompreso all’alba e schizofrenico al tramonto (ancora si leggono assunti che riconducono il suo breakdown psichico alla toxoplasmosi, causata proprio da un parassita dei gatti), c’è un talento che si intreccia con inafferrabili tesi mistiche, vagiti di occultismo magico, psichedelia hippy ante-litteram e un’innocenza bambina che cela una profondità senza pari.

E in questo squilibrio sta la forza generatrice di Louis Wain: un uomo incapace di allinearsi all’ordine pre-costituito che irretisce un’intera società con la sua personalissima visione delle cose. Non uno “sconfitto”, un mago. Il visionario mondo di Louis Wain decide di far conoscere una storia a lungo dimenticata, e lo fa in modo squisitamente “pop”, in linea col prodotto pittorico. Eppure, al di là del racconto, c’è un’atmosfera impalpabile che nessuna cronistoria, per quanto dettagliata e ammiccante, può restituire. E Catland si rivelerà ancora una volta allo sguardo di chi vorrà vederla.