Questo dittico di film apre una parentesi di riflessione su temi quali il rapporto del mistico nel quotidiano e l’impatto della religiosità nella vita sociale, partendo da un luogo, l’India, estremamente frastagliato ed eterogeneo, che per lontananza tendiamo purtroppo a percepire come monolitico. Khayal Gatha (La saga del Khayal) è un film nebuloso, in cui lo studio del Khayal, una forma musicale tradizionale indiana, da parte di un giovane si interseca con la rappresentazione di storie e miti riguardanti l’evoluzione di questa tecnica nei secoli. Sin dall’incipit, in cui si racconta di come la musica del dio Brahmā preceda la creazione stessa del mondo, passando per le storie di Sarasvatī, dea delle arti, e quella dei due amanti Heer e Ranjha, celebre tragedia d’amore del Punjab, la genealogia e lo sviluppo di quest’arte si intreccia con le varie culture religiose che vanno a formare l’induismo.

Lo stile narrativo scelto dal regista, Kumar Shahani, è caratterizzato da frasi e immagini labilmente connesse fra loro, un’eco forse della tradizione orale di trasmissione del sapere fra maestro e discepolo, o forse una congruenza con la struttura dei Veda, la raccolta di testi sacri più importante dell’induismo, più vicina allo stile enunciativo coranico che a quello narrativo di derivazione giudaico-cristiana. Come lo studente, la macchina da presa si muove incessantemente come alla ricerca di una forma di verità, utilizzando la musica e la tradizione spirituale come mezzo, lasciandosi trasportare e attraversare dalle sensazioni di un istante. L’inquadratura è sensibile al cambiamento, scostante, attenta e trasmette bene il senso del lasciarsi fluire dalla vita come via per la saggezza.

Decisamente meno ostico e più concreto il secondo film, Ghatashraddha (Il rituale), di Girish Kasaravalli. Il tema dell’influenza della religione nella costruzione del tessuto sociale è messo qui in scena a partire dalla storia di Yamunakka, figlia di un bramino rimasta incinta all’infuori del matrimonio, vista attraverso lo sguardo del piccolo Naani, studente novizio presso la scuola vedica del padre di Yamunakka. Sotto feroce analisi sono qui il culto della fertilità e quello della purezza, che sottendono all’intricata e intransigente sistema delle caste. Il ghatashraddha è un particolare rituale che originariamente segnava l’emancipazione dell’iniziando dal nucleo famigliare, ma col tempo è diventato un’arma punitiva della casta bramina - quella sacerdotale, col diritto quindi di svolgere queste cerimonie – in questo caso contro una giovane donna che non ha rispettato il ruolo assegnatole.

Influenzato dal clima culturale del partito socialista indiano, Kasaravalli descrive una società chiusa e rigida, dove la minaccia di diventare intoccabili (i fuori casta, le persone con meno diritti civili) diventa lo strumento attraverso cui i privilegiati mantengono il loro potere e limitano quello degli altri. È un film di denuncia crudo, ansiogeno, in cui la pressione psicologica a cui i personaggi sono sottoposti è ben rimarcata e onnipresente, e al cui apice è posto uno spietato finale e una sequenza di aborto messa in scena con tale brutalità da risultare quasi insostenibile.