Dagli Archivi spuntano sempre formidabili tesori legati alla critica e alla cinefilia. Nel 2011, la figlia di Franco La Polla, Susanna, ha deciso di donare alla Cineteca di Bologna un'ampia collezione di volumi appartenuti a Franco. I volumi sono stati tutti catalogati e sono disponibili alla consultazione presso la Biblioteca Renzo Renzi. Recentemente, si è concluso anche il progetto di spoglio e digitalizzazione di tutti gli scritti che Franco ha realizzato per la Cineteca e per altri circoli del cinema: saggi, recensioni, articoli e monografie. L'inventario analitico e le digitalizzazioni, a cura di Carolina Caterina Minguzzi, sono ora disponibili e noi ne estraiamo (ed estrarremo anche in futuro) testi poco noti, spesso redatti per le schede di singole sale cinematografiche. Cominciamo con Truffaut. 

 

La camera verde di Franco La Polla

Chi non ricorda l'assunto morale che I sepolcri foscoliani hanno a suo tempo fornito al nostro disinteresse di liceali? Oggi Truffaut – attraverso l’importante mediazione di Henry James (L'altare dei morti) – ce lo ripropone, ma senza l'eroico alone necessario a un poeta neoclassico. Bensì con la secca lucidità di un moralista contemporaneo. Lo ‘nouvelle vague’, anzi, ci ha fornito, alla distanza, la più importante covata di moralisti cinematografici odierni: Truffaut, Rohmer. Chabrol, lo stesso Godard (sia pure, quest'ultimo, in una chiave alquanto particolare).

Per quel che riguarda l'autore di Jules e Jim, tuttavia, La camera verde occupa un posto fondamentale nella sua personale filmografia. Per parecchio tempo, infatti, Truffaut è stato inteso come il regista dell'amore, il profondo psicologo di uno “stato nascente” (per dirla col dilettantesco Alberoni) che veniva subito tradotto da parecchia critica come ‘tenerezza’, ‘delicatezza’ e altri gingilli per anime belle. Non che Truffaut non sia tenero e delicato: ma si tratta di una sua cifra stilistica, non dei suoi interessi. In effetti, film come Jules e Jim o Le due inglesi parlavano della morte non meno che dell'amore, del rapporto irriducibile che unisce l'uno all'altra. Con La camera verde Truffaut per la prima volta inverte la presentazione di tale rapporto: vale a dire, invece che analizzare l'amore in termini di morte, analizza la morte in termini d’amore. O viceversa. Ne nasce così un'opera tanto astrattamente intellettuale quanto concretamente biologica: da un lato sta Julien Davenne con la sua ‘teoria’ della morte, dall'altra quegli insetti da cui è affascinato, figure-chiave di vita elementare.

Dunque, la formidabile capacità di Julien come uomo è la sua coscienza di quel che Heidegger definirebbe “essere-per-la-morte”. Il personaggio, tuttavia, non ha ancora fatto a tempo a leggere Sein und Zeit (1929) e non ne può quindi conoscere la riflessione. Non per nulla la sua coscienza si limita ad una concezione della morte come termine oppositivo alla vita (gli ricorda giustamente Julie che egli concepisce la morte “contro i vivi”). Nessun riscatto dall'Angoscia heideggeriana, ma la sua assunzione a principio di vita o, se si preferisce, la sua eliminazione in nome di una Morte intesa come totalità (e dunque alienata dalla struttura entro la quale funziona come momento di liberazione dalla Cura).

Prigioniero – metaforicamente e letteralmente – di un cimitero, sia esso i campi di battaglia della grande guerra e quello da lui approntato nella cappella, sia esso quello in cui si trova di notte. Julien non conosce la paura dello sguardo che tradizionalmente attiva il terrore occidentale del soprannaturale per la semplice ragione che, al contrario, egli si è fatto sguardo nei confronti della morte. Lo testimonia bene il sacrario fotografico (e dunque squisitamente ‘obiettivo dell'obiettivo’) da lui imbastito nella cappella. È anzi quella galleria a fornirci una delle chiavi del film – quella autobiografica – che nel nostro regista è sempre presento a legarsi indissolubilmente col senso più generale dell’opera. Vi ritroviamo, fra gli altri, Cocteau (i rapporti di Truffaut col quale sono ben noti), Oskar Wemer (con cui Truffaut ebbe un forte litigio sul set di Fahrenheit 451 tale che i due troncarono i rapporti: eppure, come dice Davenne-Truffaut, a guardare quella foto ci si trova davanti a una persona che è impossibile odiare). Henri-Pierre Roché (l’amatissimo romanziere di due dei suoi film piu riusciti. Jules e Jim e Le due inglesi: non a caso proprio quelli che, dicevamo, si propongono come l’‘inverso’ dello stesso La camera verde), e soprattutto Henry James (che – ammicca Davenne-Truffaut in tipico stile ‘nouvelle vague’ – gli ha insegnato più di ogni altro l’importanza del culto del morti).

Si tratta però solo di uno dei possibili livelli di lettura. Sempre nel vistoso quadro di rivalutazione dell’interesse per la morte, la sua fenomenologia e la sua antropologia che caratterizza questi ultimi anni (Morin, Ariès, Thomas, ecc.), non è possibile non leggere nel film una ampia metafora sulla regia. In particolare, la necrofilia diventa cinefilia, la volontà caparbia di fissare in immagini il perduto è la forma esemplare dell’attività del metteur en scène. Dopotutto, il cinema non ci propone a volontà di riesumare i morti? E non è un caso che proprio Truffaut abbia impersonato lo scienziato-regista di Incontri ravvicinati di terzo tipo, colui che organizza il recupero alla vita di persone morte negli anni.

L’immagine è quel che vive, il resto non è vita (o, per dirla col Ferrand-Truffaut di Effetto notte, “il cinema è meglio della vita”): così la camera verde diventa una camera oscura dove si sviluppa l'eterno. Ancora, e in perfetto stile truffautiano, La camera verde si costituisce come esemplare indagine del risvolto celato fra le pieghe dell’Eros. È evidente: il rapporto fra Julien e Julie (due nomi davvero truffautiani: i riferimenti sono, per il primo, ancora a Le due inglesi, per il secondo a parecchi film del nostro, da La sposa in nero a La mia droga si chiama Julie a Effetto notte) è un rapporto erotico sviluppato come una sorta di ‘romanzo familiare’ (per dirla con Freud): la donna cerca il padre, l'uomo cerca la madre, ambedue scomparsi nelle tenebre della morte. Come poteva un tale amore non prendere il macabro aspetto di un rituale funebre assoluto, consumato – come i ceri che vi ardono – in una cappella adibita all'uopo?

Eppure la grande protagonista di questo film terribile non è la morte, bensì la vita. Tutto in esso ci parla della ricerca di un valore sul quale misurare la propria esistenza: non per nulla Julien rifiuta il tributo del culto all'unica persona che gli ha insegnato scetticismo e diffidenza. È la vita a trionfare, sia pure in modi inusitati: come dice bene il direttore del giornale, Julien non è diverso dagli altri uomini, vuole amare ed essere amato. Dunque, il suo rifiuto della vita per la morte è soltanto volontà di dare un senso alla prima, di ritrovarne un valore. Più volte il protagonista si ritrova davanti al testardo recupero che essa fa di se stessa: si pensi ai primi incontri con Julie, si pensi alla visita dell'amico vedovo in compagnia della nuova moglie. È dal recupero della vita che Julien si ritrae mentre intravediamo il suo viso dietro la porta di vetro frastagliato. Ma non è una porta misteriosa, non cela segreti che non potremo mai penetrare: è solo una parete semitrasparente che ci dice quanto Julien è vicino alla vita nelle sue forme più umane e gioiose, laddove egli ne ha scelto la celebrazione in chiave paradossale. Lo testimonia anche la sua ira davanti alla rottura delle lastre, quelle lastre che proiettano – anche se non in chiave cinematografica, ma fissate nell'immobilità di una lanterna magica (l’opposizione è evidente: movimento è cinema, fissità è morte) – elementari figure di vita. E se sul piano auto-biofilmograflco il rapporto col bambino muto rimanda in qualche modo a Il ragazzo selvaggio, su quello metaforico il ragazzo non è altri che Julien stesso incapace di una ‘comunicazione’ con la vita, di una verità spogliata da maschere (di qui il furto della parrucca).

Fare della morte la maschera della vita, prolungare nel culto – esteriore ed interiore – l’esistenza dei morti ha fatto così di Julien qualcosa di simile a certi scienziati da horror film alle prese con le loro creature mostruose e innocenti, i quali devono pagare la loro hybris o scambiare la loro ricerca di vita in moneta coniata con la morte. Ma questa volta senza orrore: anzi, con truffautiana tenerezza e dolcezza.