Torna in sala, restaurato in digitale, director's cut, distribuito dalla Cineteca di Bologna, La febbre del sabato sera. Le fonti critiche non furono tantissime, o meglio del film si parlò parecchio ma soprattutto in termini sociologici. Fuori dai radar cinefili (purtroppo) il capolavoro di John Badham avrebbe cambiato il mondo della cultura popolare.

"Come fu che la generazione degli anni Settanta, economicamente depressa e cresciuta davanti alla tv, cercò di trovare le sue forme di bellezza e di riscatto. John Travolta è Tony, diciannovenne, italiano, cattolico, che lavora come commesso in un negozio di vernici a Bay Ridge, Brooklyn; il sabato sera esce e va alla discoteca di quartiere, il suo privato dream palace, dov’è il campione della pista. È la fisicità potente e trattenuta di Tony – il suo bisogno di ballare, il suo diventare se stesso solo quando balla – che ci trascina nell’incantesimo pop di questo film. Il clima emotivo, la vibrazione, il ritmo ipnotico sono così schiettamente attraenti, e Travolta è una presenza così originale, che lo spettatore passa sopra quasi senza accorgersene a una sceneggiatura piuttosto rudimentale (di Norman Wexler, basata su una cover story del “New York”, 7 giugno 1976, Tribal Rites of the New Saturday Night). Karen Lynn Gorney è Stephanie, che sogna di fuggire da Brooklyn e farsi strada a Manhattan, vista come l’isola magica di tutte le opportunità – senza ironia, proprio nello spirito di George Gershwin. Il pubblico più giovane si vide rappresentato dal film di Badham, così come precedenti generazioni s’erano riconosciute nel Selvaggio, in Gioventù bruciata, nel Laureato e in Easy Rider; e Travolta diventò un culto nazionale praticamente nel giro d’una notte".
(Pauline Kael)

La febbre del sabato sera
 parla d’un gruppo di ragazzi di Brooklyn, non proprio delinquenti, ma cinici e duri in modo piuttosto inquietante, e ben decisi a farsi molto notare ogni sabato sera. In realtà, è per il sabato sera che vivono: per il momento in cui, messe al collo le loro catene d’oro e infilate le camicie nuove appena comprate con la busta paga del venerdì, si dirigono verso un posto chiamato Odyssey 2001, buttano giù pillole e alcol e consumano la notte ballando. Solo ogni tanto s’allontanano verso il parcheggio, per una sosta insieme a una ragazza nel sedile posteriore. John Travolta occupa il centro del gruppo: è quello che balla meglio, che ha il look migliore, che esibisce maggior sicurezza di sé. La sua vita è incasinata come quella di tutti gli altri, che però non lo sanno: “Sai una cosa, Tony? Tu hai sempre il controllo”. Non è vero, non ce l’ha. Lavora tutto il giorno in un negozio di vernici e ferramenta e poi torna a casa da una famiglia in adorazione davanti al fratello maggiore, che è un prete. La famiglia Manero viene presentata con pochi tratti essenziali proprio all’inizio, in una scena intorno al tavolo da pranzo che, come l’intero film, riesce a tenersi in equilibrio sulla corda tesa tra il comico e il patetico […]. La Brooklyn che vediamo in
Saturday Night Fever 
ci ricorda molto la Little Italy scorsesiana di Mean Streets. I personaggi sono simili: hanno poche ambizioni e poche speranze di farcela nel mondo di quelli che hanno successo – un mondo il cui simbolo è per loro Manhattan, e il ponte di Brooklyn che verso Manhattan si slancia orgogliosamente. Ma La febbre del sabato sera non è serio come i film di Scorsese. Dopo tutto, è pieno di musica dall’inizio alla fine, soprattutto dei Bee Gees. E ci sono molte scene leggere o francamente divertenti a controbilanciare quelle tragiche e autodistruttive. […] Le sequenze musical sono magnifiche. Travolta e Karen Gorney insieme sono fantastici, e il piano-sequenza in cui Travolta balla in solitario manda letteralmente il pubblico in visibilio. Il film è diretto da John Badham, la cui cinepresa si muove così bene sulla pista da farci veramente intuire il fascino dell’universo disco.
(Roger Ebert, "Chicago Sun-Times", 1977)

Sotto il segno di Rocky entra danzando John Travolta, nuovo eroe positivo della periferia italiana, di New York. L’orizzonte di Tony Manero, il giovane protagonista di La febbre dei sabato sera diretto da John Badham, è delimitato dalle strutture fantascientifiche del ponte di Verrazzano, oltre le quali si estende la favolosa realtà di Manhattan. Per i ragazzi di Bay Bridge passare il ponte significherebbe sfondare, avere successo, cambiare vita. […] Dal mito di Sylvester Stallone la nuova 'star' del cinema giovanile eredita vitalismo e spontaneità, ma neanche un grammo di humour. Pur dotatissimo e scatenato, John Travolta manca di autoironia e finisce .per consumarsi nella dimensione edificante del film. Il patetico ras della balera, trasfigurato nel rutilare delle immagini a colori, avvolto nel sound carezzevole dei Bee Gees, diventa sotto ai nostri occhi un eroe dello schermo, scavalcando ogni plausibilità sociologica. Se il significato del film è che l'equilibrio esistenziale non può fondarsi sull'allusione, lo spettacolo va in un senso perfettamente contrario. Però il taglio del film è accorto, il contesto è sempre animato e i particolari sono tutti godibili.
(Tullio Kezich, “La Repubblica”, 26 marzo 1978)

Tony Manero è John Travolta. Per chi è indifferente o refrattario alla 'disco-music', è lui che merita il prezzo del biglietto. Non sappiamo se, come hanno scritto molti critici americani o inglesi, Travolta abbia la stoffa di cui sono fatti i divi. Non c’è dubbio, comunque, che quando scende su una pista da ballo, solo o in coppia non importa, è un fenomeno da guardare: ha l'energia, la fierezza, l’eleganza di un torero. Inoltre, come attore, possiede una qualità che è di Al Pacino, De Niro e pochi altri: sa rendere espressivo un personaggio inarticolato.
(Morando Morandini, “Il Giorno”, 26 marzo 1978)


La febbre del sabato sera
 ha le qualità ed i difetti delle opere che vogliono cogliere tutto, e tutto insieme: una certa aria del tempo, un certo 'suono' di visi e di musiche d’epoca, un certo ritratto orizzontale di società. Indubbiamente, come tanto cinema americano recente e no, riesce a catturare ed a istituzionalizzare più di un frammento della contemporanea cultura di massa propria delle grandi città americane. In più, essendo girato quasi tutto in autentici esterni newyorkesi, piglia d’incanto quel colorito smorto e violento, febbrile e aggressivo, che è proprio della segnaletica urbana degli Stati Uniti. Come descrizione di 'clan' (i rapidi amplessi con le ragazze conosciute al ballo sul sedile posteriore dell'auto ferma all’angolo; le bevute, gli scherzi, il linguaggio) probabilmente serba, e serberà, un certo valore. Come antologia di 'atti' musicali e di danza popolare contemporanea, anche.
Difficile, dire se, nel tempo, acquisterà altri valori che non siano, quelli, già immediatamente percepibili adesso, di 'pseudo-documento', nella tradizione complessa ma sempre fascinosa a momenti, del grande 'realismo' americano para-musicale, para-cittadino e para-intimistico.
(Claudio G. Fava, “Corriere Mercantile”, 1° aprile 1978)