La grandezza di Federico Fellini, e del suo cinema, è fuori dal tempo. Eppure la sua attualità è sconcertante. Parrebbe strano pensarlo, quando l'aggettivo “felliniano”, che lo inorgogliva e imbarazzava al contempo, rimanda alla dimensione epicurea ma malinconica di un sogno che contiene già in sé il rimpianto di ciò che è sfuggito, o ogni giorno sfugge. E quando lo stesso Fellini si beava sornione della sua obliquità dichiarandosi convinto sostenitore del “cinema-falsità”.

Da sceneggiatore per grandi film del neorealismo, al quale peraltro si onorava di essere appartenuto, Fellini aveva dimostrato che la rappresentazione delle istanze sociali poteva essere del tutto alla sua portata. Così come da giovanissimo vignettista satirico del Marc'Aurelio non aveva mostrato difficoltà nel commento del contingente. Nelle vesti di regista, invece, Fellini si è sempre dichiarato disinteressato alla politica, peraltro alimentando un fraintendimento di lungo corso sulla valenza del suo cinema, guardato con irritazione nel netto dualismo cattolico/comunista della Prima Repubblica, in quanto non ascrivibile in categorie partitiche.

Ma Fellini ama la vita così com'è, a dispetto di tutto come Cabiria, in lui vincono la fascinazione e la pietas verso il particolarismo degli individui, a qualsiasi classe o gruppo appartengano. Non può esistere l'afflato politico come schieramento a favore degli uni contro gli altri, richiesto da una visione militante. Pur tuttavia, il suo commento sulla realtà sociale è evidente, ed è un commento non legato alle strette contingenze storiche ma a una visione più ampia dell'uomo contemporaneo che riverbera e si amplifica in tutta la sua acutezza sul presente. Quella modalità narrativa larga, quasi indolente, quell'incedere del racconto per pennellate pittoriche che ha fatto tacciare i suoi film di “fragilità di struttura” dalla critica degli esordi, resta a dimostrazione della sua intuizione fulminea ed epidermica di una società dominata da una visione non più finalistica delle cose, ma da un esistere e apparire nel qui e ora.

Moltissimo Fellini ha colto della realtà italiana e occidentale dal dopoguerra a tutt'oggi, se ne può pescare a piene mani dalla sua filmografia, e il tal senso la sua visionarietà è tutto tranne che onirica, quanto piuttosto suggestiva e premonitrice: La dolce vita è un tuffo nel consumo e nella corruzione dell'Italia del boom, che già ha intuito la solitudine disperata e gaudente della società liquida; Amarcord è il sintomo di una coscienza nazionale così labile e poco fiera di sé da dover ripiegare sulle individuali infanzie per sperare di ravvisare qualche mitica età dell'oro rispetto al presente, che diventerà poi l'amarcord di qualcun altro più giovane; I vitelloni segnala l'avvento degli adulti adolescenti, oggi più che mai discussi e appena appena nascosti dal piuttosto assonante appellativo di “bamboccioni”; Le tentazioni del dottor Antonio di Boccaccio '70 ha già imboccato la strada della smaterializzazione della sessualità, e Ginger e Fred e La voce della luna restano come testimonianze, seppur non sempre centrate, dell'acuirsi della frenesia e del bisogno di rallentare.

E poi c'è la passione di Fellini per le persone. Quella passione così diversa, in ambito post-neorealista, sia dal cinema del pedinamento zavattiniano, dove l'attore non-attore si mostra sì per quello che è, ma in quanto esemplare di una realtà esterna più estesa, sia dal cinema pasoliniano, dove già solo la scelta di chi mettere in scena si fa atto di accusa a favore degli esclusi. La curiosità di Fellini invece è da reality show: ognuno porta sullo schermo solo ciò che è individualmente e null'altro, solo ciò che gli viene di essere in modo spontaneo, o di diventare per il gusto dell'iperbole e del gioco. Se la società è sempre più parcellizzata e meno ideologizzata, allora a fare a collante restano solo i vissuti condivisi (in termini attuali, potremmo dire social) e Fellini mostra la comprensione più profonda della necessità umana di alimentare il mito esteriore di se stessi.

Lui stesso, evidentemente consapevole dell'inseparabilità fra personaggio pubblico e persona, ha nutrito con molta intelligenza la propria leggenda, pur mostrando di disinteressarsene. Lo ha fatto tramite le tante bugie immaginifiche raccontate nelle interviste (come l'infanzia in collegio e le origini circensi), ma anche lasciandosi rappresentare come simulacro pop da altri: così il Fellini di C'eravamo tanto amati di Ettore Scola, osannato da un fan che si scopre poi averlo confuso con Rossellini, e il Fellini de Il mondo di Alex di Paul Mazursky, alle prese con un giovane regista (interpretato da Donald Sutherland, suo futuro Casanova) bramoso di sapere da lui quali cibi portare su un'isola deserta, sono solo apparentemente oggetto di sbeffeggio. In realtà producono quell'alone di simpatia per il quale ora i divi hollywoodiani fanno la fila per subire i Mean Tweets di Jimmy Kimmel. Ma è nell'autobiografismo soprattutto, che tanto sembrò anomalo e fece storcere il naso alla critica degli anni '50 e successivi, che Fellini appare in maniera compiuta come il lettore più accorto del suo tempo e dei nostri.

L'autobiografismo di Fellini non è sempre edificante, anche se può risultare compiaciuto quando rievoca certi episodi della giovinezza, oppure porta in scena la sua vera moglie e la sua vera amante in un film sul dolore di una donna tradita dal marito (Giulietta degli spiriti). Fellini è in fondo impietoso con se stesso, ma l'esserlo diventa il suo modo di chiedere perdono: se parla della difficoltà creativa, E la nave va è l'ammissione dell'inabilità dell'artista a comprendere cosa accada nel proprio tempo, proprio quando Fellini sta entrando nella vecchiaia da venerato maestro. Ma non importa, sembra dire, tutto passa, tutto è vita! Anche nelle scene più intime e, in apparenza, inconfessabili, si sente frusciare il vento: sic transit gloria mundi.