In occasione delle celebrazioni felliniane, proseguiamo con la pubblicazione di alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema, contenuti nel fondo Calendoli. È la volta di Renzo Renzi (1919-2004), di cui la Cineteca di Bologna ha festeggiato i 100 anni a dicembre dell’anno scorso. Intellettuale di grande levatura culturale e morale, fu tra i più illuminati e acuti critici cinematografici italiani. Capì e difese il cinema di Fellini sin dai sui esordi, come dimostra questo articolo II clima del '40, pubblicato su Il Contemporaneo, il 23 aprile 1955. In La strada (1954), la dimensione mitica, onirica e stralunata dei personaggi calati in un paesaggio italiano desolante, sollevò un putiferio di polemiche e stroncature. Dov’era finita la lezione del Neorealismo, si chiedevano quelli di sinistra e i cattolici potevano mai accettare che gli emarginati, gli ultimi, non venissero salvati dalla Provvidenza?

Il sodalizio tra Renzi e Fellini, fu l’incontro di anime affini che diede vita a un’amicizia affettuosa e duratura. Fellini fu il suo testimone di nozze e nel corso del tempo gli regalò meravigliosi disegni di personaggi che hanno popolato il suo cinema.

 

Caro Direttore,

In un articolo scritto da tempo, ma che uscirà su Cinema Nuovo chissà quando, perché giustamente battuto da argomenti di più viva attualità, avevo sentito anch'io il bisogno di riprendere il discorso su La strada perché non potevo accettare né il tono né le motivazioni delle stroncature che ne furono fatte. […]

Ed io sono qui per dire che debbo considerarmi perfettamente d'accordo con Fellini quando scrive che "il processo storico, che l'arte deve, certamente, scoprire, assecondare e chiarire, si svolge in dialettiche assai meno limitate e particolari, assai meno tecniche e politiche" di quanto non si pensi; e che "a volte, un film che, prescindendo da riferimenti più precisi a una realtà storico-politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di un altro dove ci si riferisca a una precisa realtà sociale-politica in cammino".

È questa, evidentemente, una concezione che suggerisce gli strumenti per comprendere un po' meglio La strada e per affrontare con animo più sgombro ed aperto anche le polemiche che si fanno in questi tempi sul neo-realismo e sulle sue svolte, non tutte catalogabili a priori, come si crederebbe, con un procedimento che rischia di diventare astratto per eccesso di concretezza. Voglio ricordare a Fellini, mentre si accinge a realizzare il suo prossimo film, una situazione generale del nostro cinema che ha tratti pericolosi tanto per i fatti più generali, economici e di libertà, che ogni giorno purtroppo dobbiamo constatare, quanto per un clima culturale che ha un preciso carattere di ritorno.

Ci sembra, infatti, di respirare sempre più un'atmosfera prebellica, dove un neonato ministero della Cultura Popolare potrebbe benissimo approvare tutto quanto viene fatto oggi. C'è, insomma, un diffuso clima 1940. E i sintomi sono numerosi, proprio nelle opere. Si rifanno colossi storici dove al posto dei romani che preannunciano il duce ci sono ora i Pontefici che preannunciano i democristiani; la produzione dei film di guerra ricalca modi e sostanza di quelli fascisti; appaiono certe commediole sulle telefoniste il cui piglio sorridente e inutile ricorda troppo i Grandi magazzini; persino De Sica ricomincia ad esagerare come attore, recitando la parte del bel giovane che oramai si permette le bravure del nonno; Visconti continua a fare "l'opera maledetta"; Castellani ritorna ai formalismi estetizzanti di Un colpo di pistola; un'Italia spensierata e dopolavoristica viene additata come la vera fonte della nuova poesia.

Ed io - dirà Fellini - che cosa c'entro in tutto questo? Inutile che ripeta qui la mia ammirazione per Fellini poiché, anche ne La strada (questa favola così intimamente popolare del candore che vince e disarma la prepotenza) egli ha mostrato di saper fare un'opera nuova, sua, contro ogni allettamento commerciale (e bene ha meritato se poi ha ottenuto anche il successo). Ma, per un processo inconsapevole e tuttavia ben più serio, proprio La strada riflette - ancora nobilmente - qualche carattere di questo clima di ritorno. Gelsomina e Zampanò, i nomi stessi, paiono tratti da un giornale umoristico di quell'epoca. E tutta la storia del film, col suo modo allusivo di esprimersi, con la sua fuga sorprendente e straordinaria nei paesaggi e negli ambienti solitari, fuori dalle intollerabili comunità di uomini, pare quasi fatta apposta per acquistare un significato di simbolo e di rivolta in un regime di tirannide. Forse la mia è soltanto una impressione sbagliata, in preda come sono agli incubi di un passato mai troppo condannato. […]

Ma Fellini vada avanti liberamente perché soltanto una totale libertà con se stesso (se ancora gliela permettono) può, nell'arte, condurre a risultati autentici, che poi sono quelli che non riescono a riconoscere coloro che maneggiano formule troppo convenzionali.