Ogni volta che ci si imbatte in un film di John Boorman viene da chiedersi come mai non se ne parli molto di più. Il regista inglese nato a Shepperton non ha solo firmato un pugno di classici amatissimi (Duello nel Pacifico, Excalibur e naturalmente Un tranquillo weekend di paura); possedendo come pochi tanto il nerbo del narratore di razza quanto la fiamma del visionario, è fra i migliori esempi viventi della mai abbastanza ribadita labilità di confini fra cinema "basso" e cinema "alto". E lo è stato quando questa era ancor meno ovvia. Tanto premesso, almeno nel caso di Leone l'ultimo, è plateale la vera e propria scelta di campo di fare un film d'arte.

Di "genere d'arte", verrebbe un po' malignamente da dire: applaudito all'epoca, addirittura premiato a Cannes 1970 per la miglior regia, oggi si può definirlo senza esitare un film dimenticato, dimenticato per il naturale affievolirsi nel tempo di tutto un universo filmico-iconografico rispetto a cui forse – e certamente sul piano comunicativo - brillava di luce riflessa. Ma è un peccato perché il talento di Boorman e un grande, umanissimo Mastroianni fanno piovere il fulmine sul loro Frankenstein di pezzi di seconda mano e vi reinfondono vita, cosicché Leone l'ultimo, spesso e volentieri additabile con il riferimento di turno sulle labbra, finisce per non assomigliare più a nient'altro.

Fra le linee di sangue che vi si contaminano - quella barocca e cupamente ironica di Fellini, quella opaca e velenosa di Antonioni, quella autoconsapevole di tanti uomini con la macchina da presa, i connazionali Hitchcock e Powell in testa - domina a sorpresa un afflato politico-sociale a matrice però prettamente introspettiva, lontano parente di quello (molto più ancorato allo specifico delle realtà osservate) di un Sidney Lumet. Rampollo riluttante di una potente famiglia gentilizia, insediatosi alla sua morte nella magione di un padre "alla cui sinistra sedeva De Gaulle, alla cui destra - alticcio - Churchill" Leone (Mastroianni) è un timido ornitologo che osserva il mondo intero a distanza con il cannocchiale. Un mondo diviso fra l'apatia dei signori e la miseria dei servi, la nutrita comunità africana del quartiere. E da cui il protagonista si lascerà pian piano coinvolgere..

Chi ha visto l'ultimo Kaurismaki L'altro volto della speranza forse ricorderà una stupenda versione blues del traditional finlandese Oi mutsi, mutsi (Oh madre, madre). In un film marchiato fin nelle ossa dal colore nero, dalla notte, dal carbone e dalla fuliggine, risuonano le parole “Oh madre madre, accendi la lanterna... sarò presto morto/ comprami per favore un bell'abito bianco/ perché presto dormirò nella fredda, morta terra”. In Leone l'ultimo, dove gli abitanti della grande casa combattono l'ennui a forza di buffe sedute di acquaspinning tantrico, si canta “chiudi a chiave, o madre mia, tutti i miei vestiti colorati/ è tempo di portare il lutto/ ora non posso più indossarli/ l'unico colore che posso portare è il nero..”.

E il film è un vero bianco e nero a colori, talmente insistito nella scelta cromatica da far pensare che il contrasto fra facce anglosassoni e facce africane abbia poco a che vedere con una reale preoccupazione politica e moltissimo con la resa poetica del grigiore del protagonista, capace di abbracciare emotivamente un'idea solo finchè questa vola libera e lontana come uno dei suoi uccelli. Leone l'ultimo è la storia di come per una volta quest'uomo, anzichè interromperne il volo, tenti di volare con loro.