Almeno su un punto L'esorcista sembra mettere tutti d'accordo: lo straordinario uso del sonoro. C'è tutta un'aneddotica sulla realizzazione di certi effetti, come lo scricchiolio delle ossa del collo di Regan, ottenuto stritolando un portafoglio di cuoio pieno di carte di credito, o lo scalpiccio in soffitta, creato sovrapponendo graffi di unghie, una sega a nastro e il rumore di porcellini d'India in corsa su una tavola coperta di carta vetrata. Leggendario, poi, è il training di Mercedes McCambridge, che per trovare un timbro di voce da posseduta si era fatta legare a una sedia, aveva ripreso a bere e a fumare e ingoiò mele acerbe e uova crude in quantità.

Aneddotica a parte, non è tanto l'uso dei rumori e della musica come suggestione soprannaturale o come commento alla presenza del mostro ad essere emblematico: questi sono procedimenti tipici del sonoro da film horror. Il punto è che nell'Esorcista il sound design, più che accompagnare la presenza del demone,  spinge ad identificare il demone con il rumore stesso e a considerare il corpo di Regan una sorta di medium soggetto ad interferenze. Michel Serres considera il rumore come parte della comunicazione tra due interlocutori, lo definisce 'l'ospite indesiderato' o ancora 'il demone, la prosopopea del rumore'. Si tratta di una definizione  perfettamente calzante per il film di Friedkin, anche perché, a livello di contenuti L'esorcista può essere letto come espressione del conflitto – anche comunicativo - tra vecchia e nuova generazione. Nel film il demone è un agente destabilizzante che sfugge al senso comune, è tutto ciò che esce dalla comfort zone del già noto. In altre parole è un modo apocalittico di percepire il futuro.

Oltre ai rumori veri e propri c'è la parca colonna sonora, che comprende brani di straordinaria ricercatezza timbrica spesso giocati sull'ambiguità tra suono e suggestioni onomatopeiche. Friedkin non ha scelto le tracce per spaventare - in quel caso sarebbe stata perfetta la colonna sonora precedentemente realizzata da Lalo Schifrin -, bensì per destabilizzare lo spettatore, da un punto di vista timbrico, ritmico e armonico. Senza scomodare la teologia e i legami tra triade e trinità, bastano gli psicologi della musica a dimostrare che in Occidente la percezione musicale e l'acculturazione si modellano su prodotti tonali. Nel film, le musiche di Penderecki, Crumb e Webern servono a confondere se non addirittura a tradire le aspettative tonali dello spettatore, a forzarlo a restare nel fastidioso pantano dell'imprevedibile. Certamente il meccanismo funziona solo se chi guarda il film non conosce ancora i brani, in ogni caso L'esorcista pare suggerire una corrispondenza tra una crisi spirituale e una crisi musicale. Da un lato, il diavolo interrompe la musica cantabile e prevedibile, come quando Regan arriva alla festa e zittisce gli ospiti con la sua presenza; dall'altro il film sembra pescare tra la musica d'avanguardia per comunicare un terrificante messaggio: la dissonanza si è talmente emancipata da diventare un'entità a sé stante. Il diavolo, per l'appunto.

Il parlato ha un peso cruciale, soprattutto perché l'esorcismo mira a restaurare la Parola. A parte il fatto che Regan parla in altre lingue, c'è la stranezza di pronunciare frasi al contrario: sarà anche una delle prove di possessione, ma quando padre Karras si dà da fare con il registratore non è così diverso da un fan dei Beatles intento ad ascoltare Revolution 9 per scoprire significati nascosti. Infine, il ritmo. Se nella prima parte del film si sentiva Tubular Bells, brano con un metro asimmetrico, nell'esorcismo si passa all'imposizione della scansione ritmica, basti pensare alla scena in cui padre Karras e padre Merrin ripetono ‘the power of Christ compels you!’, per combattere l'aritmia del demone.

Dunque, almeno idealmente, l'esorcismo dovrebbe ripristinare una musica ritmicamente regolare, con melodie riconoscibili e un'armonia tonale. Ma la conclusione del film, con il IV movimento della Fantasia per archi di Hans Werner Henze, sembra proprio lasciare il finale aperto.