Comincia con tre uomini che prelevano una donna dalla cappella in cui è inginocchiata a pregare, per scortarla al patibolo: Maria Stuarda di Scozia fu fatta decapitare nel 1587 da Elisabetta I d’Inghilterra, per sancire la vittoria di quest’ultima nella rivalità fra le due corone per il regno di Gran Bretagna. Come si arrivò al feroce regolamento di conti viene illustrato dalla regista inglese Josie Rourke nel corso dei 120 -eccessivi - minuti di ricostruzione storica al femminile che compongono Maria regina di Scozia.

Vedova ad appena 18 anni e di religione cattolica, Maria sbarca nel 1561 sulle spiagge scozzesi come la Ada di Lezioni di piano in arrivo su quelle neozelandesi. È trasparente, solare e di larghe vedute, ed organizza la sua corte fra il pugno duro verso uomini che la avversano ed inedite attenzioni per i sentimenti del gineceo di ancelle che la servono. La protestante Elisabetta I, d’altro canto, domina il regno di Inghilterra con trame machiavelliche, silente schiava di conflitti interiori che ne alterano i tratti, fortemente arcigni, e ne fissano l’incedere, debitore dell’Orlando di Sally Potter. Da qui si svolgono i simmetrici percorsi, confluenti in un incontro fra le sovrane che ha luogo al termine delle evoluzioni di ognuna e del film. Una Maria dura e aggressiva ed una Elisabetta fragile e stremata si avvicinano, riconoscono e confrontano, per concordare su una sola cosa: poiché donne di potere, hanno due nemici, la rivale e l’esercito di uomini che le circondano. Risultato: Maria viene decapitata dagli emissari di Elisabetta, ma il di lei figlio sarà il capostipite della successiva dinastia al trono del Regno Unito.

Una regista donna rispolvera nel 2019, in piena tempesta #metoo, la sanguinosa rivalità fra due regine del 1500, cercando analogie e ricorsi storici, e trovandoli solo a metà. Il progetto era in effetti di quelli scivolosi, perché occorre una estrema forzatura di interpretazione per vedere nel rapporto fra Maria ed Elisabetta un sodalizio anti-maschile precursore della rivolta odierna contro le molestie di genere, come invece lo si vorrebbe. Anzi, alcuni elementi del pur lodevole tentativo finiscono addirittura per remare contro. Se è avvilente constatare che oggi come allora la rivalità fra donne si gioca su avvenenza fisica, maternità, virilità e lignaggio dei compagni, si resta dubbiosi sul reale significato femminista delle gravidanze, realizzate e non (chi violenta chi quando Maria rimane incinta?), della fin troppo agevole manipolazione di uomini deboli e dipendenti, ma anche del dominio su altri uomini che mal sopportano sì il potere politico in mano ad una donna, ma lo ostacolano solo se protetti dal branco. Il film, fresco di nomination agli Oscar per trucco e costumi, paga proprio l’atteggiamento irrisolto della Rourke, inspiegabilmente poco interessata a radicalizzare la condanna della condizione femminile che mostra o l’intento di farne una bandiera di femminismo ante litteram, cioè l’esatto opposto.

In questa sostanziale confusione programmatica, spicca l’ennesima trasformazione estetica di Margot Robbie, sempre più determinata a far dimenticare al mondo la sua bellezza, forse perché assai consapevole di quel pregiudizio tutto particolare che investe le donne di bell’aspetto, a Hollywood come in qualsiasi altro posto di lavoro, corti regali comprese.