Con buona pace di Ėjzenštejn, non c'era solo il cine-pugno a spaccare i crani degli spettatori sovietici: tutti i teorici dell'avanguardia proponevano formule per innescare un meccanismo critico nello spettatore, con una sintesi di tecnologia, arte e coscienza politica. Jakov Protazanov, però, non era un teorico bensì un abilissimo artigiano e un professionista raffinato, in ogni caso stimato dall'avanguardia.

Uomo di grande mestiere, già nella Russia prerivoluzionaria raggiunge un posto di prim'ordine tra i registi d'intrattenimento. È sensibile agli umori del pubblico e capace di ottenere grandi successi al botteghino, come con La dama di picche o Padre Sergio. Nel tempo si rivela una figura preziosissima per la nascente industria cinematografica; aspetto, questo, che certa critica non gli ha mai perdonato: anziché riconoscere l'estrema padronanza del materiale espressivo e, come nel caso di Marionette o Aelita, la sua capacità di sperimentare con i generi, c'è chi, in riferimento al periodo sovietico, ne ha unicamente additato il  disimpegno e ha liquidato buona parte della sua opera bollandola come cinema commerciale, con l'aggravante, nel caso del regista in questione, di uno sguardo vergognosamente rivolto verso ovest.

Nel caso di Marionette, i giudizi sono stati piuttosto severi. Vale la pena ricordare lo sganassone critico di Giovanni Buttafava, secondo il quale nel film “l'incapacità di 'pensare' in termini nuovi la forma portò a rimescolare stampi operettistici e caricature grossolane vicine a un qualunquismo radicale da vignetta umoristica di second'ordine”.

Certamente Marionette non è un film perfetto, ma è comunque spassoso ed estremamente curato, dalla costruzione delle inquadrature all'angolo di ripresa, dai numeri coreografici alla Busby Berkeley al montaggio, ricercatissimo nella continuità grafica (è esemplare il raccordo tra il pestaggio alla stazione di polizia e la partita di pallavolo). Come già in Aelita, Protazanov si appropria delle conquiste dell'avanguardia, trasfigurandole in pure soluzioni estetiche, rendendole commercializzabili e dunque neutralizzandone l'effetto di rottura. Si pensi soltanto all'espediente della marionetta e alla riflessione legata, negli anni precedenti, a una simile metafora, sia in ambito cinematografico (la Fabbrica dell'attore eccentrico di Trauberg e Kozincev), sia in ambito teatrale (la biomeccanica di Mejerchol'd), oppure in ambito musicale, seguendo un procedimento concettualmente opposto (Petruška di Stravinskij). Il punto è che Marionette è realmente un film di fantocci, per cui è inutile cercare un ulteriore livello di lettura in quella direzione, dato che l'artificio è rivelato nei suoi significati in partenza. È, insomma, una satira politica senza un vero e proprio spessore politico.

Ad essere sinceri, l'interesse del film sembra risiedere in una differente lettura. A parte l'indiscutibile ricercatezza formale della pellicola, è l'aspetto metacinematografico che balza agli occhi, quasi una confessione del regista stesso. Il teatro di marionette diventa un doppio dell'esperienza di fruizione cinematografica: Protazanov è il burattinaio invisibile del film, colui che tira i fili dell'industria del cinema, capace di commercializzare l'avanguardia, di sorvolare sulla politica e persino di orchestrare uno star system sovietico. E con Marionette, più o meno volontariamente, finisce per innescare un meccanismo critico, mettendo in guardia lo spettatore dall'insidiosa capacità di manipolazione del cinema.