Pittore, attore, sceneggiatore, regista, produttore, montatore, musicista e scrittore, Melvin Van Peebles è stata una delle più poliedriche e significative figure del cinema afroamericano, secondo per notorietà solo a Spike Lee e John Singleton che paradossalmente devono proprio a lui parte della loro fortunata carriera, debitori entrambi al guerrilla style delle sue opere divenuto un modello valido ancora oggi per molti autori neri emergenti.

Fautore di un cinema politico e orgogliosamente indipendente, Van Peebles ha saputo sdoganare l’immagine del buon nero del canone hollywoodiano che aveva trovato in Sidney Poitier e Harry Belafonte la perfetta sintesi tra tradizione e aggiornamento. I suoi personaggi politicamente scorretti, violenti e poco istruiti hanno contribuito tanto alla creazione di un nuovo modello di afroamericano, non edificante ma vero, espressione di una brutale realtà che l’ideologia WASP aveva da sempre negato o represso.

Durante gli anni trascorsi in Francia in cerca di fortuna in campo artistico, Van Peebles realizza alcuni corti e debutta al lungometraggio nel 1968 con La permission sulla relazione tra una ragazza francese e un soldato afroamericano in licenza premio a Parigi, film che riceve una buona accoglienza e motiva l’autore a dedicarsi al cinema una volta rientrato in patria. Con L’uomo caffellatte (1970), firma il primo provocatorio attacco all’ipocrisia dell’America coeva. Attraverso la metamorfosi del protagonista bianco sessista e razzista in un afroamericano che esperisce sulla propria nuova pelle le forme di discriminazione e disprezzo fino al giorno prima sostenute con convinzione, Van Peebles mette in ridicolo pensiero e atteggiamenti bianchi facendo del film – unico della sua produzione a essere finanziato da una Major – l’apripista di una rivoluzione iconografica ancora oggi in corso.

Ma è con il successivo Sweet Sweetback's Baad Asssss Song (1971) che il regista si affermerà come autore di culto nella comunità giovanile ghettizzata che in breve elegge a manifesto la storia di un ragazzo noto nel quartiere di Los Angeles per le sue doti sessuali che, uccisi due poliziotti bianchi per difendere un “fratello”, si dà alla fuga diventando una simbolo per tutto il ghetto. Per la prima volta sullo schermo il protagonista afroamericano è una figura fortemente sessualizzata, intenta in espliciti rapporti con donne bianche e nere, oltre che forte e cosciente, capace fino a uccidere per la salvezza sua e altrui.

Tratteggiando il suo personaggio Van Peebles crea un nuovo eroe per “tutti i fratelli e sorelle che ne hanno abbastanza dell’uomo bianco”, espressione di una chiara presa di posizione contro l'establishment a stelle e strisce. Certo il film, criticato dalla borghesia e dai pacifisti neri e invece osannato dai movimenti di lotta come le Black Panthers, non manca di stereotipi che legano ancora una volta la figura del protagonista a certe immagini consolidate nella mentalità statunitense: il maschio nero brutale e maschilista e il ghetto caratterizzato da uno stile di vita basso e degradante, fondato su leggi non scritte di prevaricazione e violenza.

Grazie anche all’accurata fase di distribuzione (lo stesso regista viaggia di città in città, portando le copie da una sala all’altra aspettando la percentuale d’incasso a proiezione finita) il film guadagna circa 15 milioni di dollari – cifra sorprendente per un’opera indipendente per di più afroamericana – consacrandone stile, tematiche e autore. Sweet Sweetback diventa il capostipite della blaxploitation, filone hollywoodiano che, in un momento di crisi produttiva, trova in quel cinema a basso costo dai contenuti facili e mirati a un pubblico ben definito, un mezzo per risollevare le sorti dell’industria cinematografica nazionale. Soprannominato il “Padrino del cinema black”, Van Peebles e il suo film sono ancora oggi soggetti venerati del lungometraggio biografico Baadasssss! del figlio Mario (2004) e di documentari quali How to Eat Your Watermelon in White Company (and Enjoy It) o Unstoppable: Conversation with Melvin Van Peebles, Gordon Parks, and Ossie Davis, entrambi del 2005.

Nonostante il grande successo, il temperamento e la provocatorietà dell’autore ne ostacolano non poco la carriera negli anni a venire, forse non brillante come agli esordi ma sempre comunque prolifica e ammirevole. A un’attività sempre più sporadica di regista per il cinema (Don’t Play Us Cheap, 1972; Identity Crisis, 1989; Vrooom Vroom Vroooom, corto per il film a episodi Tales of Erotica, 1996) Van Peebles affianca quella di autore per la televisione. The Sophisticated Gents, miniserie NBC del 1981 tratta dal romanzo The Junior Bachelor Society dell’afroamericano John A. Williams, è un’opera coraggiosa che affronta temi scomodi quali sessualità interrazziale, aborto, omosessualità e in cui il regista interpreta lo scomodo ruolo di magnaccia; mentre nel film-tv Gang in Blue co-diretto assieme al figlio nel 1996, un poliziotto nero scopre alcuni suprematisti bianchi infiltrati nel suo stesso dipartimento.

Tra una regia e l’altra, Van Peebles si dedica alla stesura di romanzi, pièce teatrali e sceneggiature, come Just an Old Sweet Song (adattamento di un suo romanzo per il film di Robert Ellis Miller del 1976) e Greased Lightning, biopic di Michael Schultz su Wendell Scott, primo pilota afroamericano a vincere una gara della NASCAR, interpretato da Richard Pryor e Pam Grier. È anche attore per Robert Altman, Joseph Sargent, Reginald Hudlin e Mario Van Peebles.

Nei primi anni 2000 torna a dirigere due film di cui è anche sceneggiatore, il satirico Le Conte du ventre plein (2000) e il semi-autobiografico ConfessionsOfa Ex-Doofus-ItchyFooted Mutha (2008), oltre ad alcuni videoclip di canzoni da lui scritte e interpretate nei suoi ultimi album in sprechgesang, uno stile particolare tra il canto e il parlato ennesimo tassello di una creatività multiforme e libera. Una coscienziosa libertà espressiva riassunta dal figlio in occasione della morte del genitore:

“Papà sapeva che le immagini nere contano. Se un’immagine vale più di mille parole, quanto valeva un film? Vogliamo essere il successo che vediamo, quindi abbiamo bisogno di vederci liberi. La vera liberazione non significava imitare la mentalità del colonizzatore. Significava apprezzare il potere, la bellezza e l'interconnessione di tutte le persone”.