Provate a confrontare la camomilla rassicurante di Benvenuti al Sud con questo antico incontro-scontro tra la mentalità milanese e quello che proprio qui viene con sdegno denominato, da una signora del nord, “lo stile napoletano”. Per carità, chiaro che Luca Miniero non è Eduardo De Filippo, ma non è questo il punto. Il punto è che Napoletani a Milano resta a tutt’oggi una delle commedie più brillanti e coraggiose a ragionare attorno alla dinamica nord-sud, in particolare al conflitto tra Milano e Napoli che da sempre attraversa il cinema italiano. Sarebbe, tuttavia, riduttivo limitarlo nei confini di questa dialettica, se non altro perché c’è di mezzo Eduardo che ha qui ambizioni ben più alte del raccontino pittoresco. E, no, si va fuori strada se lo si intende leggere nel solco del film corale di viaggio alla Parigi è sempre Parigi.

No, circoscriviamo il campo altrove: Napoletani a Milano è una variazione e al contempo la parafrasi semi-realistica di Miracolo a Milano, dove dei poveri cristi che alloggiano in una squallida borgata sono costretti a sloggiare perché un’azienda milanese vuole costruire una fabbrica al posto delle loro fatiscenti dimore (“non ci erano riusciti nemmeno i tedeschi!”). Siamo al principio del regno del sindaco Achille Lauro, con Napoli prossima al sacco edilizio e ancora immersa nelle macerie. Il cuore del problema è sempre quello della speculazione, ma, a differenza di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, De Filippo ha a disposizione Age e Scarpelli. E grazie allo sguardo di questi due geni dell’umorismo – sull’introduzione del cast, tra battute sul neorealismo e altri principi teorici, c’è la loro firma – dirige quello che è forse il risultato migliore della sua finora un po’ rimossa carriera cinematografica.

Il regista si concede anche il ruolo da protagonista, trovando in Don Salvatore un personaggio strepitoso per la sintesi di saggezza e cialtroneria, indigenza e carisma, onestà e scaltrezza. Capo riconosciuto del suo quartiere, intuisce che i cinque morti periti per disgrazia nel corso delle operazioni di sfratto possono tornare utili. E, allora, tutti gli abitanti salgono a Milano per fingersi parenti e chiedere un risarcimento. Anticipando in chiave meno esilarante l’approccio alla capitale del nord di Totò e Peppino, alle lamentele per il clima e al disagio per abitudini diverse la comitiva unisce la consumata esperienza spirituale di una città di attori-nati. Ma la loro messinscena (memorabili tutti di nero vestiti che versano lacrime per i morti) è solo un’alternativa a quella dei milanesi, un gioco delle parti che a mano a mano svela la reale natura delle due componenti: da una parte, morti di fame che accettano di lavorare per la ditta pur di mangiare; dall’altra, capitalisti ben contenti di non pagare se gli operai decidono di lavorare gratis.

Non si parla quasi mai di Napoletani a Milano quando si ricordano gli operai del cinema italiano: è un peccato, perché qui emergono con nitidezza la solidarietà di classe nonostante le differenze geografiche, un sano populismo, la brava gente che lavora, le stoccate alla classe dirigente che manda avanti le facce buone per pararsi le spalle. E sarebbe interessante notare anche un momento quasi impercettibile in cui c’è un gioco di sguardi tra l’impellicciata socia di maggioranza dell’azienda e un napoletano che, appoggiato alla porta, ascolta la riunione: pochi secondi, sì, ma pregni di un imprevisto erotismo che presagisce la relazione tra padrona e servo di Travolti da un insolito destino. Scintille, d’accordo, ma a ben vedere se ne trovano anche altro: ecco perché riscopriamo Eduardo cineasta.