“ Di notte le strade di New York riflettono la crocifissione e la morte di Cristo. Quando per terra c’è la neve e il silenzio è assoluto, esce dalle orrende case di New York una musica di così cupa disperazione e bancarotta da far accapponare la pelle.”

È il 1939 e la paranoia esistenziale catturata dalle parole sanguigne di Henry Miller in Tropico del Capricorno è ancora lontana da quel sentimento di shock e paura in cui inizia a trovarsi l’individuo medio americano a partire dalla seconda metà degli anni ’60, eppure è in grado di descrivere, almeno in parte, il sentimento di soffocamento provato nell’ambiente metropolitano. Lo stesso percepito da Jon Voight, cowboy naïf che abbandona la provincia texana e un futuro da lavapiatti, per rincorrere fantomatici sogni di ricchezza come gigolò, in Un uomo da marciapiede nel suo vagare per le strade newyorkesi. Un vagabondare amplificato da un’inseparabile radio portatile che incessantemente parla con la voce di irrilevanti popular songs e slogan pubblicitari.

“Perché ti preoccupi dell’avvenire, cosa desideri più di ogni altra cosa al mondo?”

Presenza, voce acusmatica che si conforma al ritmo della grande città, in una sinfonia misera, lontana dagli echi rassicuranti della provincia, facendo scivolare il cowboy di mezzanotte in un baratro esistenziale in cui, “Everybody’s talking at me/I don’t hear a word they’re saying/Only the echoes of my mind.” La voce di Harry Nilsson accompagna il protagonista del film di John Schlesinger come un mantra in una New York lontana dal lirismo Alleniano e che schiaccia l’essere umano il quale, suo malgrado, è vittima sacrificale di un sistema alieno, fatto di raggiri, inquietudine e squallore.

Una sorta di ragnatela metropolitana in cui l’individuo resta intrappolato, dimenandosi per non essere fagocitato e divorato dalla disillusione. La speranza è vana eppure si incarna nel rapporto d’amicizia che il protagonista instaura con un altro essere umano ai margini della società, l’italoamericano malato di tisi Rizzo, interpretato da Dustin Hoffman. Personaggio quest’ultimo caratterizzato dal suono del suo tossire ritmico, campanello di morte che scandisce come colpi di batteria il tempo di melodie psichedeliche di un festino dagli echi warholiani. Atmosfera metropolitana in cui, ancora una volta, i due outsider tristi si trascinano e si lasciano trascinare.

Malinconia che John Barry, curatore della colonna sonora, cattura con il suono nudo di un’armonica (suonata per l’occasione dal jazzista belga Toots Thielemans, il quale avrebbe collaborato anche con John Williams per la colonna sonora di Sugarland Express), emblema di solitudine e disillusione. Sentimenti che il cowboy, spogliatosi per sempre dei suoi vestiti da rodeo, comprende davvero durante il disperato viaggio verso la Florida stringendo a sé il suo unico amico morente.

La paranoia metropolitana è ormai alle spalle, ma presto ne subentrerà un’altra. Con lo stesso suono o forse diverso. Gli anni ’70 sono alle porte e Jon Voight, come Jack Nicholson in Cinque pezzi facili, in attesa della nostalgia, va senza sapere dove: “I’m going where the sun keeps shining/Through the pouring rain“. Dopotutto, come scriveva LaPolla, “si tratta di un cinema di personaggi ossessionati”.