Siamo nel 1939: mentre le truppe tedesche invadono la Polonia, in America George Marshall dirige Partita d'azzardo, scoppiettante e divertente film western i cui protagonisti sono Tom Destry, sceriffo idealista e pacifista (l’americano James Stewart) e Frenchy, ballerina di saloon cinica e truffatrice (la tedesca Marlene Dietrich, che aveva abbandonato la sua patria e aveva preso le distanze dal nazismo).
Nella violenta e caotica cittadina di Bottleneck una banda di truffatori - capeggiata da Kent, proprietario del Saloon e dalla sua amante, l’affascinante ballerina Frenchy - comanda secondo la legge del più forte e del più furbo. A portar ordine e civiltà viene chiamato Tom Destry, figlio di un leggendario sceriffo pistolero. L’approccio attendista e pacifista del nuovo vice sceriffo suscita stupore e derisione fra gli abitanti, fino a quando l’uccisione di innocenti e il riconoscimento degli assassini non convincerà tutti della necessità del rispetto della Legge e del rifiuto della violenza.
L’indubbia metafora etica e politica, che aleggia alle spalle di questo delizioso film di Marshall, non toglie nulla a quella freschezza, a quel divertimento, a quella grazia leggera che oggi, a 80 anni di distanza dalla sua realizzazione, noi spettatori percepiamo ancora con nitidezza guardando Partita d'azzardo. È un Marshall impeccabile, che dosa con sapienza vari elementi: l’avvincente trama ispirata al precedente film del 1932 con Tom Mix, due attori famosi ma fino a quel momento lontani dal mondo western, diversi comprimari di talento come Misha Auer che interpreta il russo Boris, tempi comici perfetti, una sceneggiatura indovinata e una riuscita scelta di spazio, composizione e inquadrature.
Marlene Dietrich viene catapultata dai salotti dell’alta società e dalle atmosfere eleganti e raffinate di Angelo di Ernst Lubitsch al saloon pieno di cowboy ubriaconi e violenti di Partita d'azzardo; ma l’entrata in scena nel mondo del western che le riserva Marshall è degna del suo status di diva. Mentre Kent, il proprietario del saloon, sta imbrogliando a carte un pover uomo, si appoggia al balcone e fa cenno al barista di chiamare qualcuno. Un’inquadratura dall’alto scende da destra a sinistra sul bancone affollato di rumorosi avventori. Prima ancora che la Dietrich appaia riconosciamo la sua inconfondibile voce, profonda e sensuale, che canta Little Joe the Wrangler (quella stessa voce di cui Ernest Hemingway disse: “Se non avesse nient’altro che la voce potrebbe spezzarti il cuore. Ma ha anche un corpo stupendo e il volto di una bellezza senza tempo”). La camera fa una breve carrellata sul bancone, inquadra da dietro cappelli da cowboy e infine dei riccioli biondi. Finalmente Marlene Dietrich si volta in un primo piano e fa l’occhiolino rivolta al balcone: in pochi secondi illumina la scena e spezza davvero i cuori degli spettatori.
Ma l’ingresso che Marshall riserva a James Stewart non è meno teatrale. Prima intravediamo Tom Destry dentro l’abitacolo di una polverosa diligenza in viaggio verso Bottleneck. Il suo arrivo in città - dove si sta recando per assumere il ruolo di vice sceriffo - viene salutato da spari di benvenuto in memoria del valoroso padre. Ma dalla diligenza invece di un rude cowboy scende un uomo alto ed elegante, che impugna un grazioso ombrellino parasole e una gabbietta con un canarino, e che ammette candidamente, fra le risa della folla, di non avere l’abitudine di portare armi addosso (usanza che gli varrà il soprannome di Tom - no - gun).
Nel ’39 la Dietrich non girava film da due anni, dai tempi di Angelo di Ernst Lubitsch, e si voleva allontanare da quell’allure sofisticata che ormai le andava un po’ stretta mentre Stewart era fresco dell’ennesima collaborazione con Frank Capra per Mr. Smith va a Washington - che registrò grande successo al botteghino e gli valse cinque nomination all’Oscar - e non disdegnava di consolidare la sua immagine di uomo corretto e idealista. L’unione delle due star funzionò e pare non solo sul set. Il gioco sottile fra realtà e finzione, fra la diva eterea, tutta trucchi e luci soffuse, e l’uomo tutto di un pezzo, moralmente irreprensibile, viene spesso sottolineato dal regista. In una scena in cui Frenchy si azzuffa con la moglie di un uomo che ha appena truffato, Tom le getta un secchio d’acqua in testa per farla smettere. La ballerina, una volta uscita vittoriosa dalla rissa, si ferma al bancone a festeggiare ma mente sta bevendo si accorge di esser rimasta senza trucco e corre via spaventata. Più tardi Tom le suggerirà di togliere il trucco pesante dal volto per apparire più autentica e lei ammetterà di intravedere nei suoi modi stravaganti e a volte fin troppo gentili un uomo di carattere.
Ma al di là del gioco sulla perfetta intesa, reale e filmica, fra i due protagonisti, Marshall ha il merito di raccontare una storia che pur partendo da stereotipi western avvince lo spettatore, intrattenendolo per 95 minuti col sorriso sulle labbra. Le proverbiali parabole di Tom Destry che uniscono lezioni di morale e lezioni di ironia, la spavalda insicurezza che è poi il fascino stesso di Frenchy, le battute surreali del russo Boris, la simpatia dello sceriffo ubriacone Wash, e quel bacio strappato in punta di morte e coperto dal pudore di un cappello da cowboy non possono che confermare il giudizio di Ehsan Khoshbakht che definisce Partita d'azzardo “il più bel western comico di sempre”