Nel Friuli di fine ‘800, sulle rive dell’adriatico, Agata vive nella sua piccola comunità. Tra il vento battente e l’aspro paesaggio, il villaggio non sembra mai sereno, bensì agitato sin dalle prime inquadrature dalle forze insormontabili della natura. Agata è incinta, ma la sua bambina nasce morta, nonostante tutti gli sforzi, fisici e rituali, che il paese ha rivolto verso di lei. Un dramma inspiegabile, a cui però nessuno è disposto a piegarsi e la volontà di andare avanti è più forte, verso la prossima sfida, la prossima piccola conquista o il prossimo funerale. Per Agata però la storia non è finita qui, e il suo pensiero fisso è quello di poter battezzare comunque sua figlia così che possa uscire dal Limbo ed essere accolta in paradiso.

Ci troviamo di fronte alla storia di una donna pronta a tutto per il suo obiettivo, che domanda incessantemente confronto e cerca qualsiasi possibile soluzione. Per certi aspetti la tenacia del personaggio di Agata ricorda quello di Anne, protagonista del film vincitore del Leone d’Oro La scelta di Anne, dove però la ricerca incessante era mirata all’interruzione di gravidanza, circa sessant’anni dopo le vicende di Agata. Ci sono però delle inquietanti ricorrenze in due storie così diverse, ambientate in luoghi e tempi differenti, come il complesso raggiungimento dell’empatia da parte dei nostri simili o la sufficienza dello sguardo maschile, che, dove ad Anne suggeriva di avere rapporti tanto che ormai la gravidanza era fatta, ad Agata torna nella forma del “ne farai altri”. Esternazioni logiche e fredde che colpiscono duramente il delicato equilibrio di giovani donne alle prese con dei momenti traumatici e fondamentali nella formazione del proprio corpo e del proprio pensiero. Ma comunque commenti inutili allo scopo di fermare l’infaticabile avanzare di queste donne.

Agata lascia la sua comunità in solitaria, con la sua bambina caricata sulle spalle all’interno di una piccola cassa, un oggetto che le grava addosso e che al tempo stesso lei abbraccia, stringe come il più grande tesoro sulla terra, al punto che chiunque la incontri immagina che dentro ci siano chissà quali ricchezze. Questa piccola cassa, di cui noi spettatori conosciamo il valore, tiene alta la suspense durante tutto il film, e vediamo come diventi parte della forza della protagonista, che impara a muoversi in un mondo ostile e sconosciuto usando con intelligenza la propria condizione senza mai far trasparire la grande sofferenza che l’accompagna.

Il film di Laura Samani è sintetico e silenzioso, aderente ai toni brulli della terra anche nella sua messa in scena, povera di colori e parca di movimenti, ma ricchissima di immagini simboliche. I gesti quotidiani del remare, camminare, bere dalle fonti e sporcarsi il viso di terra per non essere visti dalla montagna nelle cui viscere si vuole passare, sono tutti fondamentali nel procedere della protagonista, nella sua autoconsapevolezza e nella sua espiazione del dolore.

Il suo tragitto viene condiviso con una sola persona, uno spiantato molto giovane, ambiguamente descritto tra la tendenza ad approfittarsene, l’atteggiamento giocoso e al tempo stesso una mite compassione per questa donna sola. Questa figura diventa sempre più importante e vitale per il viaggio di Agata, sebbene la condivisione tra i due personaggi sia sporadica, ma sincera. Nell’apparente semplicità dello scambio, possiamo leggere tra le righe ciò che davvero si stanno dicendo, e presagire degli inaspettati colpi di scena.

Piccolo corpo è un’opera di rara profondità, che passa proprio grazie alla trattazione semplice e priva di orpelli, che ci conduce passo passo accanto al percorso di Agata, il cui desiderio è non solo la liberazione del male dal corpo della piccola, ma il sogno di poterla un domani riabbracciare.