Il commendator Carloni è un uomo che ha fatto fortuna subito dopo la guerra grazie al suo Vapoforno ed alla vendita delle uova di cioccolata artigianali. È il giorno di Pasqua e la voce narrante (prestata da un giovanissimo Alberto Sordi) sottolinea con zelo e affettazione la contentezza dei cuori puri che esaltano i valori cristiani di bontà, generosità, e solidarietà pervasive della pellicola dove “sono tutti buoni”, dichiara Albertone, “il pubblico il regista e Carloni”. L’attacco del film Prima comunione è a dir poco antifrastico rispetto a ciò che vedremo accadere, e lo spettatore se ne potrà rendere subito conto pochi fotogrammi dopo questa introduzione. Quando alla richiesta della voce narrante di avere mille lire un passante risponderà piccato “Mille lire? Da me?...eh scusi sa, ma se tutti me le chiedessero…”.

In una trama dedicata al sacramento della comunione (non dimentichiamo che la pellicola fu prodotta dalla casa di produzione Cattolica Universalia, subito dopo il colossal cristiano/imperiale Fabiola), tradizionalmente celebrato in Italia con fasti pomposi e provinciale enfasi di confettate e vestiti di tulle bianchi e vaporosi, il film scritto a quattro mani da Blasetti e Zavattini, pare usare il soggetto più come un pretesto per parlare di altro, soffermandosi parecchio su una satira sociale e umana, che mette a fuoco differenze di classe, micro-conflitti tra sensibilità opposte (moglie/marito, cattolico/miscredente, imprenditore-padrone/servo) in un affresco puntuale e spietato delle tipiche personalità italiane.  

Sotto la direzione precisa e forse anche un po’ rigida di Blasetti, Aldo Fabrizi da una prova attoriale molto pulita, e più scevra da improvvisazioni e macchiette. Monicelli (nel libro Mario Monicelli con il cinema non si scherza di Goffredo Fofi, edizioni Cineteca di Bologna) ricordava di Blasetti che era un regista “sempre così perentorio...Era uno che forzava tutto. Forzava, forzava...con gli attori non è che avesse una tecnica, voleva solo che facessero assolutamente come diceva lui, forzandoli senza cercare di capire quale potesse essere il loro apporto. Urla, ripetizioni, trenta, cinquanta, sessanta volte la stessa scena per gli attori era un incubo”.

Immaginiamo possa esser stato anche per questo che Fabrizi fece venir fuori in Prima comunione probabilmente la parte più cattiva di sé, una specie di antecedente di quella che sarebbe poi diventata la tipica maschera sordiana, ossia l’uomo simbolo di un'Italia smargiassa e spaccona, ingozzatasi negli anni del benessere, il pavido, il vigliacco, l’uomo che fugge dalle proprie responsabilità accusando il prossimo.

Altro che candide colombe e candidi agnelli, per tutto il film vedremo Fabrizi alle prese con avventure che discendono e si concatenano solo a partire dalla sua ingordigia e dall’antipatia che suscita, in maniera naturale, verso il prossimo. Prima la sveglia con lo strombazzare del clacson della sua nuova automobile, per fare bella mostra del proprio status quo a tutto il condominio, poi le scortesie verso la povera sartina che ha cucito il vestito per la comunione della sua bimba, esclamate davanti agli occhi della piccola figlia, poi il bisticcio con il passante/ Enrico Viarisio sul filobus, da cui discenderà il disastro della trama: la perdita del vestito per la comunione.

Il tentativo di corruzione del vicino spazzino “questi pezzenti non si contentano mai e tiragli via quel vestito e buona notte!”, a cui promette un paio di scarpe di cuoio, una giacca, e pure 20mila lire pur di strappare di dosso il vestito bianco alla sua bambina. E infine la lusinga dai preti, dove con la promessa di laute donazioni, tenta di ritardare l’inizio della cerimonia. Sono tutte situazioni narrate come naturali e ordinarie, che riviste oggi, in un mondo permeato dal politically correct, rimarcano impietosamente i piccoli grandi difetti del nostro popolo, e un certo antico costume del sopruso, dell’uomo mangia uomo così tanto tristemente assorbito da risultare non più scandaloso. 

Una commedia sicuramente vivace, girata con ritmo e leggerezza, con un tono da comica leggermente rétro quasi alla René Clair. Il film vinse tre Nastri d’argento: per la regia, per il soggetto, e per l’attore protagonista (Fabrizi).