Sempre più difficili da etichettare e delimitare, i documentari confermano ormai da molti anni il loro ruolo di progressiva centralità nella produzione non solo cinematografica e audiovisiva ma artistica in toto, fondendosi spesso con la videoarte. Sono soprattutto il mezzo tramite la quale l'immagine più facilmente sperimenta, si rinnova e muta forme e orizzonti, esaltando ad esempio la propria plasticità, come avviene nel recente corto documentario One Thousand and One Attempts to Be an Ocean di Yuyan Wang, passato per i festival di Berlino e Pesaro, o in Under the Skin – In Conversation with Anish Kapoor di Martina Margaux Cozzi. In Purple Sea, di Amel Alzakout e Khaled Abdulwahed, distribuito su MUBI, l'immagine subisce invece una dissoluzione delle proprie coordinate per recidere quella distanza rassicurante con la quale sono spesso affrontati nella narrazione odierna drammi come la migrazione e la guerra.

Amel Alzakout è un'artista siriana che nel 2015 ha lasciato il proprio paese sconvolto dalla guerra insieme al compagno, Khaled Abdulwahed. Lui riuscì a raggiungere Berlino grazie a un invito per un progetto di un film, lei rimase bloccata a Istanbul costretta ad attendere anni per ottenere un visto. Si convinse così di non avere altra scelta se non tentare la traversata in mare illegalmente. Era il 28 ottobre 2015 quando si imbarcò insieme a molte altre persone, ognuna con i propri sogni e pochi averi, alla volta dell'isola greca di Lesbo. Amel decise di riprendere l'intera traversata legandosi al polso una telecamera waterproof, ma non immaginava che pochi minuti dopo la partenza la barca si sarebbe rovesciata. Le persone finirono in mare e passarono ore prima che fossero tratte in salvo. In 42 su 316 persero la vita.

"È una bella giornata. Splende il sole. Il mare è di un azzurro intenso". Con queste parole dal sapore beffardo, la voce di Amel introduce circa sessanta minuti dentro l'acqua, quasi a inquadratura fissa, tra i corpi di centinaia di persone che cercano di rimanere a galla in attesa dei soccorsi. Il punto di vista ha origine proprio da uno di questi corpi, più che dagli occhi, in balia del mare così come lo spettatore lo è delle immagini. Si compone un mosaico di forme, colori e suoni che tende all'astrazione, in cui l'arancione dei gilet di salvataggio si staglia sull'azzurro marino, alternandosi con il rosa delle mani raggrinzite per l'eccessiva permanenza in acqua. In sottofondo, lo stridore della pelle contro i salvagenti, le urla e la concitazione ovattata.

È un feroce turbinio che passa attraverso l'immagine stessa demolendola. Non c'è linea di orizzonte, non ci sono sopra e sotto, vicino e lontano, ma puro movimento che toglie il fiato e che frustra il desiderio dello spettatore di stabilità e comprensione. D'altronde, quale comprensione e rassicurazione possono esserci in eventi e visioni del genere? L'orrore in cui siamo trasportati non ha nessuna mediazione visiva o narrativa, risultando inafferrabile, inosservabile e portandoci ad essere quasi complici, più che spettatori, con il rischio che il caos diventi ordine.

Le immagini sono accompagnate dalla voce fuori campo di Amel che stride a sua volta con ciò che vediamo. Il suo tono di voce rassicurante e i fatti narrati comprendenti sogni, ricordi e speranze accentuano lo scollamento insito in un documentario dall'incredibile e radicale vitalità, che agisce sull'immagine e sullo sguardo in modo sorprendente.