Le ragazze di Piazza di Spagna, Le ragazze di Sanfrediano, Ragazze d’oggi. E poi Bellezze in bicicletta, Terza liceo, Le signorine dello 04 fino a Belle ma povere. E si potrebbe andare avanti. Perché, sì, il cinema italiano degli anni Cinquanta si dedica molto al racconto delle fanciulle, le bambine cresciute in tempo di guerra diventate adolescenti desiderose di grandi storie d’amore, avventure sentimentali, una sistemazione economica. Ma qui siamo fuori strada: pur con le sue atmosfere rilassate dove si riconoscono le caratteristiche del neorealismo rosa – e di convesso della futura commedia all’italiana – e il clima balneare da vacanza tra Domenica d’agosto e La famiglia Passaguai, Ragazze da marito rivela, dietro un titolo che è quasi un MacGuffin, uno spirito meno conciliante di quanto voglia o possa far credere.

Le titolari non sono le vere protagoniste ma, in un certo senso, determinano il corso della storia: essendo in età da marito, vengono portate in vacanza a Capri per accalappiare buoni partiti. Naturalmente, come tutti sanno, il cuore conosce ragioni tutte sue e non ci sono lauti conti in banca o alti ranghi che tengano di fronte alle scelte dell’amore. Concetti che in apparenza sembrano sfuggire ai veri protagonisti del film, che sono i fratelli De Filippo. Eduardo e Titina interpretano i genitori delle ragazze, seguendo schemi consolidati: lui è un impiegato ministeriale statale un po’ inetto, lei la sprezzante e ambiziosa matrona che sogna grandi cose per le figlie. Peppino fa la spalla, nei panni di un collega lestofante che porta Eduardo sulla cattiva strada, coinvolgendolo in traffici loschi che tuttavia garantiscono alla famiglia una sorprendente ascesa finanziaria.

Film divertente quanto scivoloso per una cattiveria ora esplicita ora no, sostanzialmente trascurato per l’assonanza ipotetica con tante commedie del periodo, Ragazze di marito accoglie il sapore agrodolce di Age e Scarpelli che, alle prese con un Eduardo messosi a disposizione del cinema per raccogliere soldi da investire nelle attività teatrali, lavorano intelligentemente tra l’adesione a certi topos del commediografo (la crisi dei padri, le opposizioni delle mogli, i figli che vorrebbero emanciparsi…) e l’attenzione a quelli che sarebbero poi diventati alcuni dei loro temi forti.

L’acido ritratto della famiglia, con la classica situazione dell’imprevisto arricchimento e la certezza del declassamento alla fine della parabola, costituisce l’occasione per metterne alla berlina le ipocrisie e le bassezze morali, senza tuttavia mai buttare il bambino con l’acqua sporca in nome di una lucidità che nel finale si riconquista per rimettere ogni cosa al suo posto. E il bozzetto della grigia e corrotta Roma ministeriale aggiorna la lezione di Le miserie del signor Travet per criticare un sottobosco di cialtroni e delinquenti assunti chissà come in opposizione alla brava gente onesta che, sì, può prendere una sbandata anche piuttosto grave, ma ha dei valori ai quali appigliarsi. Eduardo sa che Peppino al cinema funziona molto meglio di lui; entrambi però sanno che Titina – qui davvero scatenata – è di una grandezza incontestabile. Da citare le ragazze, oggi tutte ingiustamente un po’ dimenticate: Lianella Carell veniva da Ladri di biciclette, Delia Scala si stava ancora godendo il trionfo di Bellezze in bicicletta, Anna Maria Ferrero sarebbe tornata con Eduardo un anno dopo con Napoletani a Milano.