In occasione della doppia distribuzione di film restaurati di Francesco Rosi (Salvatore Giuliano e Mani sulla città) da parte della Cineteca di Bologna, come di consueto peschiamo dal mini-sito dedicato al film, dove si può attingere a molti altri materiali, per rileggere alcuni grandi nomi della critica e della cultura, tra cui Soldati e Piovene, a proposito del film sul bandito siciliano. Segue.

Il film di Rosi sul bandito Giuliano ha ottenuto il visto finale della censura. Ne sono felicissimo. Ho avuto la fortuna di vedere il film in visione privata, e sono rimasto sbalordito. Secondo me, nessun regista, mai, è riuscito a ricreare una realtà con tanta esattezza, con tanta potenza. Alla fine della proiezione, sappiamo, naturalmente, di aver assistito a uno spettacolo, a un’opera d’arte e di artificio: lo sappiamo, ma l’impressione nostra più profonda ed inconscia è un’altra: quella di un documentario. Un modo assolutamente nuovo di fare il cinema. Deriva da La terra trema di Visconti? Sì ma, questa volta, trattandosi di avvenimenti noti e importanti, di personaggi veramente esistiti, di fatti veramente accaduti, il metodo ha un’efficacia senza precedenti. Un cinema storico e critico. E anche lirico, per la forza stessa delle immagini. Una vetta, che difficilmente sarà superata.
(Mario Soldati, “Il Giorno”, 2/1/1962)

 

Se dovessi definire con un solo aggettivo il bellissimo film di Rosi Salvatore Giuliano direi che questa è un’opera giusta. È giusta sia sul piano poetico, ed è giusta sia sul piano della realtà e della sua interpretazione. È così giusta che nessuno dei molteplici aspetti di essa che la rendono complessa e talvolta oscura, rimane estraneo al film che si potrebbe dire determinato ad una visione storica precisa nel cui giudizio tutti trovano il giusto posto. E questo giudizio non si distingue dall’espressione poetica che ci offre l’immagine vivente della Sicilia.
(Carlo Levi, “L’ora della domenica”, 18-19/11/1961)

 

Salvatore Giuliano è un film di portata eccezionale. Rosi ha il gusto della cronaca, ma ha pure il potere di trasformare in dono lirico i piccoli fatti of ferti dalla esperienza, dalla lettura dei giornali, dai referti di questura, dai rapportini dei carabinieri. È un dono di cui il più alto esempio in letteratura è offerto dalle Cronache italiane di Stendhal e nel cinema da quel mirabile film che è Scarface di Howard Hawks. Agli osservatori superficiali può sembrare, quella della cronaca rivissuta, una strada facile e comoda. Nulla di meno vero. Bisogna credere in ciò che sfa e trasferirsi intuitivamente nel personaggio di cui si racconta la storia. Esaminatolo nei minimi moventi psicologici, bisogna ricostruirlo dal di dentro con intelletto d’amore. È facoltà di pochi, ma codesta qualità Rosi ce l’ha in sommo grado.
(Pietro Bianchi, “Il Giorno”, 2/3/1962)

 

Salvatore Giuliano è un film entusiasmante per più motivi. Per la incalzante, gremita, naturalissima espressività delle varie sequenze; per la laconica eloquenza della galleria di tipi che, dai protagonisti all’ultima comparsa, rivelano fino a qual punto di adesione con la realtà sia stato capace di spingersi il regista, senza mai indulgere né a forzature espressionistiche né a compiacimenti di colore; per il senso del limite che ha guidato il regista, malgrado i pericoli d’una materia così esposta alle facili manipolazioni spettacolari, sia nelle scene di pura violenza, sia nel disegno di personaggi il cui aspetto patologico avrebbe finito col tentare e col possedere più d’uno dei cosiddetti ‘registi dell’anima’. Ma il motivo essenziale risiede, a mio avviso, nell’essere S alvatore Giuliano un film che tenta di fare scattare nello spettatore la molla della coscienza civile. Pur muovendo dai documenti ed avendo scelto come materiali del racconto quelli della cronaca, fino al rispetto dei più minuti particolari, gli autori (fra i quali mi sembra aver primeggiato, in sede di sceneggiatura, quell’acuto osservatore dei fatti sociali e severo scrittore che è Franco Solinas) hanno conseguito una sintesi fantastica e drammatica che si accompagna, oltre la cronaca, nel cuore stesso delle ragioni storiche, politiche e umane che l’hanno determinata.
(Antonello Trombadori, “Vie nuove”, 8/3/1962)

 

Sorretto da una sceneggiatura magnificamente articolata (gli autori: Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas) il film non ha un solo vizio da porgere alla mia cattiveria di patrono del diavolo. Ha la bellezza calma e insostenibile delle statue greche: un raro, difficilissimo punto di equilibrio fra la concitazione e la sobrietà. Cito ad esempio le frammentate visioni di Giuliano morto e dell’ambascia di sua madre: il corpo nel sole del cortiletto, vestito, ancora apparentemente ai fatti; e poi nudo sotto i blocchi di ghiaccio nell’obitorio, quando lo mostrano alla donna per il riconoscimento e lei si china a baciarlo tutto (una ricognizione di baci), arrendendosi a un pianto che è squittio di uccelli impazziti, scricchiolio rugginoso d’uscio sbattuto, urlo di vento nel bosco, lamento di zampogna, insomma pianto di mammella tradita se mai ve ne furono. E le fucilate di Portella della Ginestra? I lavoratori in marcia a bandiere spiegate nella radura, poi tutto a un tratto gli spari, i tonfi, le precipitose fughe e gli uccisi che fanno macchia sull’erba, anomali fiori del giardinetto di Caino. E le agghiaccianti sequenze del processo, i banditi che nel gabbione protestano, o dilaniano chi sgarra, o soggiacciono ad attacchi epilettici, o accusano invano altissimi e innominati individui, mentre sotto il nitido ‘La Legge è uguale per tutti’, affisso alle pareti, balugina un accorato ‘Ma tutti non sono uguali per la Legge?’ […] Concludo: un memorabile film, che indipendentemente dalle torbide acque che smuove, è un poema cinematografico. Bene, Rosi, bravo. Fra gli interpreti, scarsi gli attori di professione (Frank Wolff, Salvo Randone); l’efficienza degli altri è tutta sangue di regia. Nell’avvocato difensore ho riconosciuto e apprezzato il collega Federico Zardi. C’è infine un mafioso chiamato Giuseppe Marotta… lo invidio, mannaggia: non troverà in ogni angolo, come succede a me nell’attività mia, fessi che gli mancano di rispetto.
(Giuseppe Marotta, “L’Europeo, 21/1/1962)

 

Può darsi che in nessun paese del mondo una realtà attuale e scottante come quella del film di Francesco Rosi sul bandito Giuliano potrebbe essere affrontata e aggredita con così intrepido scrupolo della verità. (Voglio notare, di sfuggita la completa atonia mentale di quanti hanno visto in quel film solo un esempio di verismo documentario, o qualcosa di simile a un’inchiesta giornalistica legata alla polemica e al consumo giornaliero; come se l’impeto aggressivo della verità non fosse anche un fatto poetico; per niente legato a una scuola, ma trasferibile in forme e in stili diversi, comunque per se stesso il carattere distintivo della vera arte d’oggi). Ma ecco, bisogna aggiungere, una serie di film, ormai abbastanza lunga, (quello sul bandito Giuliano è l’ultimo e tra i più belli) e con minore risonanza immediata, ma non minori effetti specialmente indiretti, alcune opere letterarie, sono parte integrale della nostra storia civile di questo dopoguerra. Si provi a immaginare senza di essi la storia italiana recente; non sarebbe possibile, diventerebbe un’altra.
(Guido Piovene, “L’Espresso”, 18/3/1962)

 

La Sicilia, questo lembo distaccato dell’Africa…Le parole di Stendhal ritornano alla mente per quanti vedono in Salvatore Giuliano scene simili a quelle di cui, soltanto nel 1962, l’Algeria fu teatro. Dopo Il posto di Olmi, dopo lo sconvolgente Banditi a Orgosolo di De Seta, ecco infine Salvatore Giuliano. Nel 1962 il film era stato eliminato a Cannes per ragioni oscure, pur avendo tutte le chance di vincere il Grand Prix al posto del brasiliano La parola data. La nobile e potente opera di Rosi ci fornisce un’ulteriore prova del fatto che la nouvelle vague italiana è più forte di quella francese, e penetra maggiormente il nostro tempo e l’essenza delle cose. Riprendendo, trasformando, spingendo ben più lontano la lezione del neorealismo, un grande cinema ritrova, dunque, una nuova forza e una nuova giovinezza. Si affretti, quindi, la Francia, i cui eroi nel 1960 si sono un po’ esauriti, a rivaleggiare ancora una volta con quel cinema e a superarlo.
(Georges Sadoul, 1962)