Si scrive in maiuscolo, ROMA. È già una scelta poetica. La capitale italiana non c’entra niente: è il nome del quartiere di Città del Messico in cui vivono i protagonisti. E dove ha vissuto la famiglia di Alfonso Cuarón. All’ottavo film in ventisette anni, ha deciso di fare i conti col passato: quello personale e quello collettivo. Una saga familiare racchiusa in un biennio che si fa crocevia della storia messicana. Autore totale (produttore, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore), Cuarón dona al privato il respiro dell’epos, tessendo una narrazione fondata su due dualismi, l’uno specchio dell’altro: tra grande e piccolo e tra fuori e dentro.

Da una parte, la coralità, la storia ufficiale, la violenza, il mare, la fantascienza fruita, il titolo allusivo; dall’altra, una casa borghese, un quartiere, un matrimonio, i bambini. Ed è lo sguardo di uno di loro (Alfonso?) a darci la misura dello spazio: se la città è uno sconfinato spazio orizzontale, da scoprire di corsa, nonostante il traffico e i pericoli, perché dietro l’angolo c’è un cinema dove imparare a sognare, la casa, fortino degli affetti messi alla prova, è verticale. E proprio in alto, raggiungibile solo attraverso una scala esterna, c’è l’alloggio delle domestiche.

Una di loro, l’india Cleo, è il personaggio che apre le porte del film. Anzi: è lei stessa il film. La conosciamo mentre pulisce il pavimento all’ingresso, su cui il cane è abituato a defecare seguendo una geometria nascosta, e lo lustra così bene che vi si riflette un aereo che sorvola la città. Già da come è collocata nell’ambiente domestico, capiamo subito che Cleo è una persona cara e al contempo un’estranea. Eppure, malgrado non sia né un vero membro della famiglia né una rappresentante dell’etnia dominante, è lei l’epicentro del romanzo familiare e nazionale: è costretta a riallacciare i rapporti con le sue origini, deve confrontarsi con le conseguenze di un amore sbagliato, dimostra la più naturale delle dedizioni pur di proteggere e salvare i bambini dai mali del mondo.

ROMA rende omaggio alla vita segreta di una figura tanto importante nel lessico famigliare quanto sconosciuta. È Cleo a dare l’amore che viene a mancare quando il papà abbandona il tetto e i quattro figlioletti, mentre la mamma non sa riprendersi e non riesce a parcheggiare l’auto troppo grande nello spazio angusto dell’ingresso (gran bell’immagine). Ed è sempre Cleo a costituire il legame tra il trauma privato e lo shock nazionale, con gli studenti pestati ed uccisi nel massacro del 10 giugno 1971. La perdita dell’innocenza è anzitutto sua, ferita a morte e destinata a soffrire, mentre il bambino attonito filtra tutto attraverso il vetro di un grande magazzino, dove fa irruzione quella violenza già osservata in fase embrionale dalla stessa Cleo in uno degli inquietanti addestramenti paramilitari dei picchiatori marziali di estrema destra.

Dentro una confezione spettacolare che mai si compiace della sua sontuosa eleganza in abbagliante bianco e nero, Cuarón si muove tra memoria personale e ricognizione collettiva, componendo uno stupendo romanzo per immagini tra presagi minacciosi ed immersioni liberatorie. Ci accompagna nel quotidiano degli affetti con empatia e limpidezza, riesamina le contraddizioni della sua nazione, cerca di riconciliarsi. Che si possa vedere in sala è giusto; che si debba vedere in sala è fondamentale: la risposta ve la darete da soli dopo la lancinante sequenza della sala parto o magari alla fine, quando il mare torna calmo ma le onde continuano a bagnarci (no, sono le lacrime).