Spesso il cinema ha cercato di dare forma alla musica, ne sono dimostrazioni eccellenti Fantasia (1940), le Silly Symphonies e le loro dissacranti parodie Merrie Melodies, così come gli esperimenti visivi di Norman McLaren, miranti a un superamento del canonico rapporto tra immagine e suono verso nuovi territori espressivi. Molto più rara è invece l’applicazione di una teoria o struttura musicale alle immagini in movimento che funga ad esse non più d’accompagnamento, ma come elemento costituente del ritmo e della forma narrativa. I film presentati nella terza giornata della sezione “Jazz al cinema” sono rari e preziosi esempi di dialogo tra arti alla pari, dove una non domina l’altra bensì entrambe si compensano e completano a vicenda in un ibrido linguistico di indubbia suggestione.
Oltre ai già trattati film di Gianni Amico, notevole rilevanza assume il lavoro di Charles Burnett, esponente di spicco del New Black Cinema, movimento di registi intellettuali neri indipendenti che, nei primi anni Ottanta, riaffermano con i loro lavori la necessità di un “orgoglio nero” in opposizione ai modelli più denigratori proposti dai film di blaxploitation. Con When It Rains, l’autore di Killer Sheep si allontana dai toni realisti e quasi documentari delle opere precedenti in favore di uno stile narrativo più favolistico e poetico.
Ma l’esile trama – un trombettista che vaga per il ghetto di Los Angeles, al fine di racimolare i soldi necessari a pagare l’affitto di una giovane madre che rischia lo sfrattato – è chiaramente un pretesto per andare oltre il racconto verso una ricerca più profonda alle radici di una cultura. A chi gli domanda come si possano combinare jazz e blues, l’uomo risponde che la loro base comune è la musica tribale africana: entrambe si basano infatti su un atto percussivo, il jazz di una batteria, il blues delle corde di una chitarra. Coscienza etnica e di classe sono racchiusi in dodici minuti scanditi da musica, elemento onnipresente nella vita quotidiana, concetto sottolineato dal raffinato uso di temi musicali associati ai personaggi in scena, ognuno dei quali “si esprime, come in un assolo, in un blues di dodici misure” (Ehsan Khoshbakht e Jonathan Rosenbaum).
Il blues, canto di dolore ma anche presa di coscienza dei propri sentimenti e dunque della propria essenza umana, si fa allora collante del cortometraggio che non nasconde un intento di denuncia verso la vita ai margini della società di buona parte della popolazione afroamericana. Un terreno d’incontro tra arte, storia e cultura, un gesto non solo intellettuale, ma anche politico.
Lapo Gresleri