“Le onde del destino” limpide tra le lacrime
Impreziosito da una trascinante colonna sonora – dai Deep Purple ai Procol Harum, da Leonard Cohen a David Bowie – e la superba fotografia di Robby Müller, il film è ricordato soprattutto per le straordinarie prove offerte dal cast. Riportando alla memoria l’imprevedibile tragicità di un altro capolavoro in cui amore e psiche si uniscono con esiti stupefacenti – ovvero, Una moglie di John Cassavetes (1974), interpretato da Gena Rowlands e Peter Falk –, si cita anzitutto Emily Watson, qui all’esordio assoluto e candidata all’Oscar per la sua Bess.
“Dancer in the Dark” anti-musical della cecità
Lars von Trier ha definito Dancer in the Dark un anti-musical, e lo è a tutti gli effetti, procedendo vero una decostruzione estetico-narrativa del musical classico hollywoodiano. I colori e l’energia ottimistica di uno dei generi sovrani della Hollywood classica, vengono sostituiti da tonalità grigio-scure e da un’implosione performativa, sia nelle canzoni originali di Björk (di matrice noise) che nel ripercorrere le hit più note del cult per famiglie Tutti insieme appassionatamente.
“Dogville” e la paura di essere umani
Von Trier, con il suo solito sguardo spietato, cinico, e privo di ogni buonismo edulcorante, mette lo spettatore davanti ad uno specchio, spogliandolo di ogni parvenza di bontà, per ricondurlo alla violenza originaria che contraddistingue ogni essere umano. La presenza di Grace diventa un catalizzatore per mettere a nudo la natura dell’uomo, le sue contraddizioni, le sue luci e le sue ombre. Attraverso la purezza di Grace, von Trier ci mette davanti alla paura che abbiamo di essere umani.
La luciferina demiurgia di Lars von Trier
Riesumare Riget per Lars von Trier significa rispolverare il suo lato più ferocemente satirico, aggiornandone i bersagli e attingendo al contemporaneo gli oggetti dello scherno, ma è anche perseverare nel percorso di raffigurazione dell’angoscia, concedendo forma alla sua mutevolezza e a tutta la sua assurda alterità. È ancora lo straniamento il materiale grezzo da cui Riget viene forgiato, per replicare anche a distanza di anni la malefica intellegibilità di un presente sempiterno che può acquistare senso solamente se assorbito dall’arte del racconto. Ed ecco dunque il ritorno della centralità della figura dell’autore, sorgente da cui tutto sgorga e strumento ultimo tramite cui tutto deve finire.
“La casa di Jack” e l’inferno di Lars von Trier
La casa di Jack (visto in versione integrale) è un film che racconta l’odissea criminale di un’anima sporca, confessata, specularmente a Seligman, da una guida (Bruno Ganz, alla sua ultima interpretazione) che lo accompagnerà fino alla sua metamorfosi in everyman dantesco rovesciato e sprofondato negli inferi. Per comprendere meglio il “metodo Lars” potremmo citare Cartesio che, parlando delle passioni dell’anima, sostiene che per annientare la sorpresa derivante dalla paura “non c’è niente di meglio che usare la premeditazione, in modo da prepararsi per bene a tutti gli avvenimenti”. Se fuori il chaos regnat è bene allora ordinare preventivamente la materia horror: costruire un casa e creare cinque capitoli (incidenti) che abbiano l’obiettivazione come effetto della paura: l’uomo, anziché sfuggire allo spavento, lo guarda dal di fuori.