“Dylda (Beanpole)” al Torino Film Festival 2019

Kantemir Balagov – regista russo, classe 1991 – decide di mostrare la condizione sociale postbellica, sottofondo di tutto il dramma, partendo da un ospedale. Non c’è modo migliore, infatti, per raccontare il dopoguerra. I luoghi che accolgono l’inizio del film – come dei bunker in cui ancora il popolo si ripara – creano divisioni simmetriche e sintetiche tra uomini e donne, tra stanze d’ospedale piene di reduci di guerra paralizzati o tumefatti e corridori popolati da infermiere dalle quali, invece, parte la ricostruzione. Questa, però, non è così facile e immediata, le divisioni sono ancora evidenti e il sangue non scompare neanche in questo periodo di pace, tra ferite che si aprono e nasi che sanguinano.

“Vitalina Varela” al Torino Film Festival 2019

In Vitalina Varela c’è una forte continuità con il percorso artistico intrapreso da Pedro Costa. A ritornare è il discorso sull’immigrazione capoverdiana in Portogallo avvenuta negli anni settanta e le sue conseguenze nella vita del quartiere popolare di Fontainhas a Lisbona (un altro lutto che ritorna, quello di una comunità intera giunta alla sua deriva più totale). Oltre alle tematiche e ai luoghi, però, ci sono anche i personaggi. Ventura tra tutti, era il protagonista del precedente Cavallo Denaro dove Vitalina era comprimaria; qui avviene uno scambio dei rispettivi ruoli e non è un caso che, nel film, la presenza di qualsiasi soggetto femminile sia rilevante e venga insignita di un’attenzione particolare e di un’aurea di resilienza che contrasta la disillusione e il pentimento maschile.

“Synonymes” al Torino Film Festival 2019

Synonymes è il terzo lungometraggio diretto da Nadav Lapid, Orso d’oro al Festival di Berlino 2019. Prima di tutto un film politico, una produzione franco-israeliana che ragiona proprio sulle relazioni tra le due culture. È definibile “appropriazione culturale bilaterale” quella messa in scena nel film, perché se il protagonista vuole a tutti i costi essere così francese da potersi dimenticare il suo passato smettendo di parlare ebraico, rifiutando di indossare la kippa, rinnegando i suoi genitori e assimilando la conoscenza della nuova lingua, ripetendo sinonimi freneticamente (da qui il titolo del film), allo stesso tempo è oggetto di interesse per i suoi coetanei proprio per la sua origine straniera, fatta di storie (di cui è ignota la veridicità), di lingue sconosciute e di complesse situazioni politiche. Il protagonista, però, non è l’unico; anche il regista Nadav Lapid è in parte soggetto di questa appropriazione “bilaterale”, perché è il suo cinema a viverne.

“Liberté” al Torino Film Festival 2019

Liberté è il nuovo (e quinto) film di Albert Serra – regista catalano che più di tutti, oggi, lavora all’ibridazione tra cinema e arte contemporanea – che, come sempre, traendo ispirazione da un fatto storico o da un’icona narrativa, mette in scena “de-drammatizzazione”, asciugando i nuclei narrativi di base e restituendo un tempo realistico e sospeso, lontano dagli intrecci e dai conflitti, de-sacralizzato ma non dissacrante, incentrato esclusivamente su un’idea, un concetto ribadito all’estremo. Se, allora, in Historia de la Meva Mort (“storpiatura” delle memorie di Casanova: Storia della mia vita) raccontare Casanova era un pretesto per mettere in scena l’illuminismo in decadenza e in transizione con il romanticismo, qui il gruppo di libertini assume i connotati di agnelli sacrificali rappresentanti la fine del libertinismo.