“Ma nuit” e il coming of age di una generazione inquieta

Ma nuit è l’opera prima della regista francese Antoinette Boulat, qui per la prima volta dietro la macchina da presa. Il risultato è un dramma psicologico e sentimentale di stampo intimista, sempre in bilico fra disperazione e speranza, magari un po’ acerbo sotto certi aspetti ma comunque riuscito e personale, un film di forte impatto emotivo che trasmette le sensazioni con un tocco e una sensibilità marcatamente francesi. 

“Finale a sorpresa” tra il vero e il falso del cinema

I temi dell’inganno, della finzione e dell’identità erano già presenti nei precedenti lavori di Duprat, Il cittadino illustre (2016) e Mi obra maestra (2018) ma qui convergono in una critica divertente e completa al mondo del cinema in tutte le sue forme, dalle sue derive autoriali ed elitarie a quelle che abbracciano i social e la cultura di massa, rappresentandolo come un mondo ridicolo, chiuso tra le quattro mura dello studio di prova dove i personaggi principalmente litigano nella convinzione di star facendo la cosa migliore per se stessi e per il glorioso film.

“Un altro mondo” e il lavoro secondo Brizé

La regia di Brizé esprime uno sguardo lucido e coerente con la sua visione del mondo che si manifesta in ogni inquadratura. Se i lunghi primi piani di Lindon durante i colloqui con i dirigenti o nell’incontro con gli avvocati per il divorzio rendono visivamente il senso di claustrofobia e di isolamento provato dall’uomo (spesso ripreso anche in campo medio, da solo, mentre lavora seduto alla scrivania), le riprese con macchina a spalla che lo seguono da vicino fino a fargli perdere la centralità dell’inquadratura e a collocarlo ai margini dell’immagine riproducono la sua perdita di centro interiore nei momenti più intimi.

“Spencer” e la fuga di Diana dalla luce

Spencer di Pablo Larraín, interpretato da una bravissima Kristen Stewart – sempre troppo sottovalutata – è un film di fantasmi che abitano luoghi e persone; come Anna Bolena, che appare negli incubi ad occhi aperti di Diana Spencer, come uno dei visitatori spettrali dickensiani – che aiutano Ebenezer Scrooge a intraprendere la sua redenzione – per suggerirle di scappare per salvare almeno la sua, di testa. Anna Bolena è Diana Spencer, le due sono legate allo stesso cappio: un matrimonio infelice, una tradizione oppressiva e annichilente, e l’impossibilità di potersi dileguare, perché l’unica legge che conta è la legge del palazzo, è la corona, è la sovranità disumana e insulare che il popolo vede e anela nei reali.

Paul, Arrakis e lo stardom. “Dune” e gli statuti di grandezza

Villeneuve sfrutta il potere stardom di Chalamet per ottenere lo stesso tipo di risvolto semiotico (non a caso la prima scena che lo riguarda lo coglie a torso nudo) e la sua leggerezza, schiacciata dalle responsabilità della predestinazione e continuamente messa in discussione dal titanismo del contesto, tra astronavi, bombardamenti e vermi giganti, rappresenta la ragione stessa della sua chiamata in causa. In definitiva, Paul è come Arrakis, il pianeta desertico che si contendono le diverse casate dell’Imperium: inospitale, senza difese, feudo di infinite dominazioni ma allo stesso tempo invincibile, futuro dell’universo, rifugio della resistenza che verrà.

Il marchio lagunare. “Welcome Venice” e la dicotomia del presente

Welcome Venice, che col suo titolo sgrammaticato ci offre un’idea del rifiuto del nuovo che avanza da parte di un mondo tradizionale già quasi estinto, è un film genuino e prezioso per la sua profonda potenza espressiva. Il detonatore di tale espressività è dato dalla costruzione dicotomica della sua consistenza drammaturgica. L’ambientazione in laguna come spazio di mare protetto, favorisce la comunicazione perpetua tra mare chiuso/ mare aperto, antico/ moderno, guscio esteriore/ intimità psichica, acqua/ terraferma. Andrea Segre riesce a dare visibilità all’invisibile, rende materica la dualità di una storia familiare, ma anche sociale

“Mondocane” alla portata del genere contemporaneo

Un film molto serio con il genere, che mantiene un livello molto alto di coerenza rispetto a quello cui il post-apocalittico americano ci ha abituati perlomeno sul piano visuale: dai palazzoni abitati ormai soltanto dalle rampicanti alle ciminiere dell’acciaieria, dalla polvere delle strade che zufola nell’aria al sole stanco che stagna lungo la costa, dalle motociclette ai corpi sudati e sporchi dei personaggi. In un testo così giustamente saturo di visivo, così serio con la rappresentazione del degrado post-atomico e così preciso nei riferimenti narrativi, Celli riesce anche a scommettere sul non detto, su quelle intuizioni puramente estetiche che non hanno epilogo o sviluppi ma che si portano appresso un intero mondo di sottintesi.

Struggente e innovativa ode alla vita. “Il cieco che non voleva vedere Titanic” di Nikki Teemu

Il cieco che non voleva vedere Titanic è una struggente storia d’amore a distanza – che culmina poi in un sentito e sincero abbraccio con la ragazza – fra due ammalati, due emarginati. Quello di Jaakko è un viaggio (im)possibile, che riesce a superare le barriere per amore, un’impresa che viene descritta nelle sue varie fasi (sempre restringendo le inquadrature al suo volto sofferente e al mondo esterno sfuocato), con una pluralità di linguaggi che ad un certo punto sfocia anche nel thriller. Ma, come suggerisce il titolo, il film di Teemu è anche un meticoloso omaggio cinefilo.

“Dune” come mappa contemporanea del cinema di fantascienza

Il nuovo Dune non costituisce affatto un mero ripiegamento della fantascienza mainstream su logiche televisive, ma è al contrario un film che può e vuole rimettere sulla mappa contemporanea – quella mappa dai confini sfumati dove grande e piccolo schermo si avvicendano su terreno via via più comune – un’idea di messa in scena cinematografica radicale, ponderosa e dal grande impatto audiovisivo, capace contemporaneamente di mettere il dito su questioni sociopolitiche di scottante attualità e di farsi come in passato veicolo di grandi narrazioni. Mai come ora il successo non è assicurato. Mai come ora è necessario, giusto, auspicabile. 

“Una relazione” come le altre ma diversa da tutte

La loro ingenuità è velata di un certo candore e sincerità, dovuti alla scrittura di Stefano Sardo (al suo esordio alla regia), in coppia con Valentina Gaia. I dialoghi e le interruzioni, quei momenti di sospensione e di divagazione sono talmente verosimili e coinvolgenti che non si può non rimanere seduti fino alla conclusione dei titoli di coda. L’ambizione dei due protagonisti, interpretati da Guido Caprino e Elena Radonicich, ci spinge a sognare. Prima o poi però bisogna scontrarsi con la realtà, sono cresciuti in quei quindici anni e quel qualcosa che li porta alla separazione non può essere senza sofferenza.

“Qui rido io” per non piangere. Martone rilegge Scarpetta

Qui rido io — nel suo ritmo canonico, lento e preciso — finisce per tratteggiare senza sbavature una serie di domande mai scontate sulla paternità, sia essa biologica o autoriale, il cui accordo risiede in un compromesso doloroso. Lo suggerisce Benedetto Croce, nel delineare limiti e punti di forza della maschera di Felice Sciosciammocca, e lo sussurra il piccolo Eduardo (De Filippo) all’insofferente fratello Peppino: la risoluzione dello scontro respira unicamente sulle tavole del palcoscenico, spazio di austero gelo teatrale, che è poi espressione di agognatissima libertà.

“Rhino” e il romanzo criminale ucraino secondo Oleh Sentsov

Il romanzo criminale costruito da Oleh Sentsov non è pomposo e magniloquente come Il padrino o Scarface, ma più “umano” – se così si può definire – improntato cioè alla messa in scena nuda e cruda dei personaggi, diretto e narrato in modo asciutto, quasi documentaristico, con uno stile frenetico che concede poche pause (brevi ma significative, come i dialoghi con l’uomo in auto, su cui bisognerà tornare). E la regia non vuole mettere in scena un grande impero del crimine, bensì una micro-criminalità che in parte è già insita nella persona ma che in parte è descritta come risposta a una vita difficile, fatta di indigenza, problemi familiari e una società dove il singolo rischia di perdersi.

“The Last Duel” spietato affresco di indistinzione morale

The Last Duel utilizza la violenza per dipingere uno spietato affresco di indistinzione morale, meschinità e bruto egoismo. In questo sempre più simile a Kubrick, la cui carriera a tratti sembra aver scientemente ricalcato (I duellanti/Barry Lyndon, Alien/2001). Scott tocca qui un vertice assoluto del suo nichilismo misantropico: uomini senza alcun eroismo giostrano come i satelliti in moto inerziale di un Potere gelido e vacuo, così assurdo da rasentare il comico (la grande, saggia prova di Affleck) in nome di un Dio che non c’è, o se c’è è un dio infantile, “più umano dell’umano” e sadico, il Commodo di Il gladiatore, il dio bambino di Exodus. Il miglior Scott dai tempi di American Gangster?

“Illusions perdues” e il cinema sinuoso di Giannoli

Xavier Giannoli mostra con grande abilità come il protagonista si trovi a dovere convivere con un sistema che si regge sulla corruzione, e come Lucien da inossidabile romantico, idealista, uno scrittore di poesie, diventi un giornalista che si vende al miglior offerente, al servizio della pubblicità, della visibilità, delle ostilità da copertina che ottemperano diversi scopi, la notorietà e la pubblicazione. Il processo di disillusione che attraversa Lucien  è sempre più vivido e presente, un processo che approda in un’opera monumentale, la Comédie humaine, e una trasposizione precisa sia esteticamente che concettualmente.

“Scene da un matrimonio” da Bergman alla quality television

Sulle variazioni mimiche e prossemiche di Chastain e Isaac si gioca l’intera drammaturgia di una serie che nelle potentissime performance attoriali trova il suo elemento di massimo splendore. Cinque episodi, quasi totalmente racchiusi tra gli spazi angusti delle mura domestiche, vengono coperti da una manciata di lunghissime scene in cui la continuità spaziotemporale piega la modalità del racconto verso un’inclinazione teatrale, ma la prossimità dello sguardo registico ai corpi dei personaggi permette di instaurare un intimo rapporto che resta un valore aggiunto che solo l’audiovisivo può consentire.

“America Latina” tra depistaggio concettuale e crisi dell’adulto contemporaneo

Con questo film i D’Innocenzo sembrano dimostrare di essere ancora interessati alle sfumature che scattano nel mettere in scena il rapporto adulto-bambino in epoca contemporanea; dove quest’ultimo oggi è spesso feticizzato, ossessivamente salvaguardato e protetto, i due registi instaurano cortocircuiti e provocazioni mettendone in crisi le narrazioni attuali. Se in Favolacce i bambini sono praticamente il controcampo dimenticato e abbandonato dal gruppo di genitori, ma allo stesso tempo protagonisti e artefici di tutto il film, in America Latina sono un pretesto, uno strumento attraverso il quale raccontare la messa in crisi dell’adulto contemporaneo. Una rottura che provoca un crollo.

(Anti)mitologia della Frontiera. “Old Henry” e il western psicologico

Old Henry è un western dalla forte componente drammaturgica, improntato alla messa in scena della psicologia dei personaggi. Si inserisce così nella tradizione del western che si siede sul lettino dello psicanalista, in voga fin dagli anni Cinquanta, e soprattutto demitizza la Frontiera, dipingendo un West nerissimo e violento in cui la mitologia degli eroi va a braccetto con la sua decostruzione (non a caso, è ambientato nel 1906, quando l’epopea della Frontiera si avviava verso la sua conclusione): un percorso intrapreso dal cinema western fin dagli anni Sessanta, e che trova forse l’espressione definitiva nel capolavoro Gli spietati (1992) di Clint Eastwood, un film con cui il nostro sembra avere una certa parentela.

Spropositata fame di grandezza. “Freaks Out” e il futuro del cinema di genere

L’autorialità di Mainetti si conferma nel saper concentrare toni provenienti da disparate tipologie di cinema mainstream e condensarle in un prodigio dalla spropositata fame di grandezza, riuscendo però a trarne il meglio senza lasciarsi travolgere da essa. Questi i meriti artistici di un lungometraggio il cui valore non si risolve però entro i limiti testuali; perché al di là di essi Freaks Out si conferma in ottica industriale quel miracolo da tempo auspicato, assurgendo a ruolo di irrinunciabile punto di rifermento per chiunque d’ora in poi vorrà produrre, scrivere e dirigere film d’intrattenimento in questo paese. 

“Captain Volkonogov Escaped” a Venezia 2021

Dopo il piccolo dramma transgender The Man Who Surprised Everyone (2018), presentato qualche anno fa alla 75a edizione della Mostra del Cinema dove vinse il Premio Orizzonti per la migliore attrice, Natasha Merkulova e Aleksej Cupov tornano al Lido di Venezia sorretti da ben altri mezzi e ambizioni ma in perfetta coerenza con le tematiche sviscerate da quel film. Rivestito nei colori di una messinscena sontuosa da grande racconto storico, venato di action e di una sottile patina tragicomica, il conflitto fra un militare sedizioso e la Patria che non vuole più servire conferma i due registi-sceneggiatori (coniugi nella vita) come esploratori di dinamiche di dissenso in contesti oppressivi, intenti a illuminare e discutere il conservatorismo dei valori tradizionali del paese.

“Mon père, le diable” e il Male come condizione ontologica

La regista camerunense Ellie Foumbi, attiva da anni a New York e con una solida gavetta fatta di corti e partecipazioni festivaliere, esordisce nel lungometraggio con il nerissimo e potente Mon père, le diable (2021), un’opera prima di produzione francese che lascia il segno. Autrice a tutto tondo – scrive anche soggetto e sceneggiatura – la Foumbi dimostra una notevole conoscenza della tecnica cinematografica, e una forza narrativa per niente scontata, per cui riesce a mettere in piedi un dramma psicologico che tratta la piaga della guerra e la vendetta con le cadenze di un thriller in piena regola (non è azzardato tirare in ballo il modello polanskiano de La morte e la fanciulla).

“Ariaferma” e l’estetica del labirinto

Dopo L’intrusa (2017) arriviamo al 2021 con Ariaferma, un film a più alto budget che vede come interpreti principali Toni Servillo e Silvio Orlando, nei ruoli rispettivamente dell’ispettore capo di un carcere in fase di smantellamento e del più influente dei malavitosi in esso rinchiusi. Il carcere dove il film si svolge si trova immerso tra le asperità sarde ed è stato svuotato della gran parte dei suoi detenuti e dei suoi operatori in vista della chiusura. Al suo interno sono rimasti dodici detenuti, opportunamente spostati nella zona di prima accoglienza dei nuovi arresti, e una manciata di guardie frustrate all’idea di non poter rientrare a casa come speravano. Non si sa per quanti giorni dovrà durare questa convivenza forzata, privata di ogni attività a parte l’ora d’aria, con le visite sospese e la cucina ferma.